giovedì 14 novembre 2013

Lampedusa: il mea culpa dell'Africa

(Ilaria De Bonis)
Numerosissimi quotidiani africani hanno pubblicato editoriali critici nei confronti dei loro governanti, soprattutto dopo l'ultima Lampedusa.
Dall’Observer di Kampala al blog Cho Forche del Camerun, all’Independent ugandese. La domanda cruciale è per tutti un po' la stessa: perché la gente scappa? Cosa la spinge fuori dalle terre africane? La risposta è non solo la povertà. Ma anche il malgoverno. Le politiche fallimentari dei leader africani.

<<Non c’è un solo motivo per cui un Paese debba produrre così tanti rifugiati se non per via dell’incapacità di alcuni suoi leader politici>>, scrive l’Independent di Kampala in un’analisi dal titolo: “Perché gli africani muoiono per andare in Europa?”. E prosegue: <<Fin dalle prime tragedie di Lampedusa i gruppi in difesa dei diritti umani in Africa occidentale hanno fatto appello ai governi dei loro Paesi affinché affrontino il problema dell’immigrazione illegale o irregolare, considerata la strada verso il suicidio>>. Addirittura la denuncia va ben oltre l’immaginato: <<Mentre l’Italia il 4 ottobre scorso proclamava un giorno di lutto nazionale con le bandiere a mezz’asta per i morti di Lampedusa, molti governi dell’Africa orientale, da dove arrivavano gran parte degli immigrati deceduti, sono rimasti in silenzio>>.

Uno dei Paesi con il maggior numero di disperati in arrivo sulle carrette del mare è da sempre l’Eritrea <<i cui cittadini fanno di tutto per darsi un’opportunità in più. E non si tratta solo dell’Eritrea, anche gli ugandesi prendono al balzo l’opportunità di partire. Molti di loro sono giovani uomini in cerca di una vita migliore>>, scrive l’editorialista. La verità, aggiunge, è che a questi governi poco importa che i loro concittadini debbano imbarcarsi in un’impresa immensa senza garanzie e senza sicurezza: l’importante è che mandino i soldi a casa.


Gli immigrati sono una risorsa per i Paesi d’origine: in Uganda ogni anno i migranti inviano a casa oltre 700 milioni di dollari. E la cifra è vista in ascesa, fino a raggiungere un miliardo di dollari nel 2014. Insomma una ricchezza non indifferente della quale non si può far a meno, costi quel che costi.


Il sito di All Africa cita L’Independent dello Zimbabwe che parla del governo italiano: Letta e Alfano, argomenta l’editorialista, <<non vogliono che la gente muoia ma neanche vogliono che gli africani restino in Italia>>.
Inoltre <<come in altri Paesi europei che vedono aumentare il flusso dei richiedenti asilo, anche in Italia l’aumento dei migranti provenienti da Africa e Medio Oriente non fa che alimentare le ondate di intolleranza contro l’immigrazione>>. E prosegue in chiusura di articolo: <<L’atroce verità è una sola: più l’Europa farà di tutto per rendere sicuro l’attraversamento del Mediterraneo, più la gente farà di tutto per partire. Molti di questi migranti che rischiano la vita sulle carrette del mare sono veri rifugiati o richiedenti asilo ma dietro di loro, nella vastità dell’Africa occidentale, della Somalia e dell’Iraq, ci sono alcune centinaia di migliaia di persone che stanno solo cercando una chance di raggiungere l’Europa. I nazionalisti lo negheranno ma è così>>. Esattamente come un tempo l’America per gli europei, il Vecchio Continente è oggi l’eldorado degli africani alla ricerca di fortuna.

L’Africa si chiede dunque come fare per trattenere i propri concittadini: la gente non ama più l’Africa? Ad essa preferisce l’Europa? La speranza di una vita migliore, di una opportunità in più, spingono anche gli africani comuni, quelli che non rischiano ogni giorno la vita, ad andar via. In cambio trovano la morte.

Non è solo la politica del continente nero nel mirino degli opinionisti: anche la burocrazia africana è responsabile della diaspora. Il blog Chofor Che pubblica un’interessante analisi dal titolo: “I burocrati africani da biasimare per la tragedia di Lampedusa”. <<Gran parte del mio biasimo - scrive il blogger - va ai leader africani e soprattutto all’Unione africana. Il sistema di governance in Africa, ereditato dai padroni colonialisti, rimane repressivo. Nonostante il gran parlare che si fa della rinascita africana, la maggior parte degli africani rimangono disperati e poveri>>. E prosegue: <<Secondo Venture Africa il continente nero ha più miliardari di quelli che possiamo immaginare: il paradosso è quello segnato da un continente pieno di ricchi e pieno di poveri. E’ evidente che diversi leader africani non hanno mantenuto la promessa fatta ai loro elettori in campagna elettorale: i piccoli e medi imprenditori non hanno alcuna possibilità di crescere, le tasse sono esorbitanti e il diritto alla proprietà rimane un’illusione. Conflitti e tensioni politiche sono all’ordine del giorno in Somalia o in Libia. Con una situazione del genere senza speranza e senza via di scampo, perché gli africani non dovrebbero desiderare un ambiente più libero e in pace, adatto allo sviluppo economico?>>. La soluzione, dice ancora il blogger, <<è nelle mani dei burocrati e tecnocrati africani che hanno deciso di accumulare ricchezza e potere a detrimento delle popolazioni. I leader dovrebbero aprire i mercati in Africa>> in modo che la gente comune non debba rischiare di morire nella speranza vana di trovare “pascoli più verdi” altrove>>.

giovedì 7 novembre 2013

Quel maledetto pacifista del presidente

(Ilaria De Bonis)

Sembra che non ne faccia più una giusta ormai: qualcuno in Occidente lo giudica troppo bellicoso e prossimo alla politica interventista di Bush, qualcun altro in Medio Oriente lo accusa di codardia e falso pacifismo.
In generale Barack Obama è sempre meno popolare sia in Occidente che tra gli arabi e gli israeliani, i quali, per opposte ragioni hanno stigmatizzato la marcia indietro del Presidente rispetto alla ‘crociata’ siriana. 


<<Se gli Stati Uniti sono così indecisi ed esitanti (sulla Siria ndr.) cosa succederà vis à vis con l’Iran?>>. Se lo chiede con preoccupazione Amos Gilbo sul quotidiano israeliano Ma’ariv nell’editoriale titolato ‘I malvagi sorridono’. La stampa ebraica è evidentemente delusa e definisce i ripensamenti di Obama su un attacco armato contro Assad ‘una debolezza pericolosa’ che non lascia presagire nulla di buono per quanto riguarda il nemico israeliano numero uno dopo la Palestina: l’Iran.

<<Non credo serva molta imm
aginazione per figurarsi le facce soddisfatte dei malvagi di Teheran, Damasco o Beirut – scrive Gilbo - Questi personaggi fiutano la debolezza a distanza come fossero cani da caccia e capiscono che anche se l’operazione americana fosse portata avanti, sarebbe simile ad un leggero schiaffetto, e che subito dopo Assad potrebbe tranquillamente riprendere le sue operazioni usando aerei, missili, tank o semplici coltelli da macellaio>>.


Il giornalista Hagay Segal su Yedi’ot Ahronot scrive qualcosa di analogo, azzardando un giudizio storico: <<Barack Obama non riceverà medaglie al valore. Gli storici lo derideranno – dice – Scriveranno che nel 2012 il presidente fissò una red line per i siriani e quando questi la oltrepassarono nel 2013 fece ogni sforzo per sottrarsi al proprio dovere (…). Il linguaggio corporeo del presidente suggerisce determinazione ma la sua azione comunica debolezza>>.


Per la stampa araba dei Paesi anti-Assad, Obama è ugualmente codardo, ma stavolta l’Iran non c’entra: la non-guerra alla Siria, secondo i media sauditi e per quelli degli Emirati Arabi Uniti, è il segno che gli Usa non hanno intenzione di schierarsi con la popolazione civile inerme. E che dunque non difenderanno gli arabi dal terrorismo di Stato. In una lettera aperta al presidente, il noto opinionista di Al- Arabiya, tv di Dubai, scriveva settimane fa: <<Mr Obama, ad esser franchi, noi non abbiamo altri che lei>>. Un attacco militare <<è l’ultima chance>>. Al- Arabiya è considerata l’emittente televisiva più allineata con i sauditi ma in generale un po’ per tutti i giornali arabi la discriminante non è tanto quella famosa ‘linea rossa’ ormai varcata da Assad che avrebbe usato armi chimiche contri i civili (sebbene questa certezza sia oggi tramontata), quanto piuttosto la violenza dimostrata dal presidente nel reprimere la rivoluzione fin dall’inizio. Come dire, la linea rossa è stata oltrepassata giù da tempo, perché nessuno ha fatto niente? Gli Usa sono gli unici cui il mondo arabo si rivolge, non avendo un’Europa di riferimento.

<<Che cosa ha fatto il presidente americano finora? – scrive il quotidiano panarabo Al-Hayat – Nulla!>>. Sotto scacco è la non- azione più che il non intervento armato. Non azione politica, diplomatica, fisica. L’altro motivo di critica nei confronti di Obama è la verosimile dipendenza da Israele: <<il governo israeliano che nelle sue fila annovera anche criminali di guerra, vuole che gli Usa distruggano ciò che rimane della Siria. Ancora più importante – scrive sempre Jihad el-Khazen di Al Hayat – Israele vuole che gli Stati Uniti attacchino l’Iran e distruggano il suo programma nucleare, cosicchè Israele possa essere l’unica potenza nucleare della regione, minacciando Paesi vicini e lontani>>.

Di tutt’altro avviso sono naturalmente russi e cinesi. Fin dall’inizio pro-Assad. Per i primi, sia il famoso discorso di Obama che ha ritardato il voto del Congresso americano, sia il successivo parere negativo del Congresso, sono stati un successo diplomatico. <<Non ricordo un altro simile successo della diplomazia russa. Dico: bravo!>>, twitta così RT, una delle tv di Stato russe.

L’Iran plaude alla marcia indietro: Jomhuri-Ye Eslami, quotidiano iraniano scrive che Obama si è reso conto del fatto che sarebbe stato isolato se avesse attaccato. Non avrebbe avuto alleati. Certamente anche dall’Europa il presidente avrebbe ricevuto poco sostegno e comunque le opinioni pubbliche europee ed americane sono sembrate fin dall’inizio per niente convinte della necessità di questo attacco militare. Il francese Le Figaro scrive: <<Ad esser sinceri, Obama ha cercato di replicare sistematicamente ai dubbi e alle domande degli americani circa la necessità di un’azione militare limitata in Siria…>>. C’è riuscito fino ad un certo punto, poi ha desistito.


In definitiva, che lui fosse convinto o meno di questa guerra, il suo popolo stavolta non sarebbe stato con lui. Bastava guardare la rete, leggere i tweet, farsi un’idea dell’aria che tirava tramite video e news on-line. I social network hanno fin dall’inizio smontato le certezze sull’uso delle armi chimiche da parte del regime. Poi, tra gli eventi più attesi e più efficaci, è giunta la parola del papa. E’ arrivata la veglia per la pace di Francesco. <<Guerra e violenza hanno il linguaggio della morte>>, ha detto il 10 settembre scorso. E i quotidiani europei hanno così trovato i loro titoli di prima pagina. «Quando l’uomo si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio – ha detto papa Francesco - rovina tutto: apre la porta alla violenza, all’indifferenza e al conflitto».

mercoledì 19 giugno 2013

SIRIA: CRISTIANI SCOMODI (GEO-POLITICAMENTE)

Di Ilaria De Bonis
da Popoli e Missione

"Mio zio ad Homs ha perso la casa, è dovuto scappare all'improvviso ma non ha lasciato la Siria; moltissimi cristiani hanno abbandonato le case nelle zone più a rischio, ogni giorno chi rimane sa che potrebbe essere la prossima vittima della guerra". Ma c’è anche chi rimane per scelta.
Il racconto di padre Ibrahim, francescano di origini siriane, in Italia da molti anni e già frate della Custodia di Terrasanta a Gerico, si fa concitato quando descrive lo strazio dei suoi amici e parenti rimasti a Damasco. 
La loro fede pare essersi rafforzata ulteriormente, anche grazie ad una ritrovata solidarietà delle comunità locali.
"Mio fratello ha una casa nella periferia di Damasco ma lì non può tornare da oltre un anno, vive dai miei. E’ uscito una mattina senza passaporto, senza nulla, per paura delle bombe. Sento la mia famiglia quasi ogni giorno perché ho paura per loro. Ogni sera penso: e se domani mi dicessero che non è rimasto più nessuno? Che sono morti tutti? Nel condominio dove abitano a Damasco, delle 12 famiglie che erano, ne sono rimaste tre. Tutte le altre sono scappate. Molti hanno deciso di rimanere, di non fuggire. E’ una scelta coraggiosa: la scelta di stare". 

Ma non la si può imporre né pretendere. Nell'inferno di morte che sta distruggendo la Siria e i suoi abitanti e nella confusione delle centinaia di fazioni ribelli che continuano a far fronte di un regime sanguinario che ha riguadagnato terreno, la storia nella storia e l’inferno nell'inferno è quello dei cristiani cattolici, copti, greco-ortodossi, maroniti. E’ la storia di intere famiglie prigioniere tra l’incudine e il martello. Molte delle quali considerate - e spesso non a torto - “collaborazioniste” del regime di Assad. Ma in realtà, al momento, completamente inermi.

Nati “nel posto sbagliato”
"Se il regime di Bashar Al Assad cadesse domani, non c’è dubbio che gli islamisti prenderebbero il potere e che la vendetta sugli alawiti (il regime degli Assad è alawita, ndr) sui cristiani e i drusi sarebbe orribile. La libertà religiosa in Siria avrebbe fine": così scriveva a dicembre dell’anno scorso Renault Gerraud su Le Figaro. Il giornale libanese on line Al- Monitor Lebanon Pulse ipotizza però anche un’altra ragione dietro l’esodo dei cristiani: la loro posizione geografica. Dice cioè che non esistono solo motivazioni di appartenenza religiosa ed etnica, dietro il loro esodo forzato. Ma ci sarebbero anche motivi geo-strategici.
"Le zone cristiane sono in maggior parte nel Wadi-al-Ouyoun e Wadi al-Nasara che hanno un milione di cristiani e rappresentano la più grande area di continuità dei cristiani nel Medio Oriente. Gli esperti dicono che la loro tragedia consiste nell’essere collocati nel cuore di una disputa che contiene sia aspetti religiosi che economici", scrive Al-Monitor.
"Questi cristiani si trovano sulle rive del fiume Orontes che separa il deserto siriano dalle aree verdi della Siria – si legge -. Contiene rilievi montuosi che sono un’estensione di quelli libanesi e turchi, ed è una zona cuscinetto tra la costa e l’entroterra. Gli alawiti sono tradizionalmente più sul territorio montuoso, mentre i sunniti abitano le zone dell’entroterra e i cristiani fatalmente separano queste due aree. Gli esperti dicono che chiunque controlli le aree cristiane può controllare la guerra in Siria".
Ma c’è ancora un altro aspetto inquietante, stavolta più economico che geografico: "Tutte le linee di trasporto di petrolio e gas dall’Iran e dall’Iraq verso il Mediterraneo passano attraverso queste aree siriane. Circolano anche voci su giacimenti petroliferi non ancora scoperti nell’area abitata dai cristiani, così come a largo delle coste siriane". Un motivo in più per desiderare che le popolazioni che vi abitano, al di là del fatto che siano cristiane o meno, lascino quelle terre. "Per tutte queste ragioni pare proprio che i cristiani si trovino nel bel mezzo di una polveriera e di una tragedia – scrive ancora Al-Monitor - rischiando sterminio e dislocamento. Finora il mondo si è accontentato di monitorare, bisogna che inizi ad agire".

lunedì 17 giugno 2013

KWAIT, TRA SCEICCHI E BLOGGER RAMPANTI

di Ilaria De Bonis
da Osservatorio Medio Oriente- Popoli e Missione


Il Kwait gioca d’anticipo, considerata l’aria che tira tra le giovani generazioni in Medio Oriente. 
In una mossa tesa a gettare un ponte tra i regnanti Al Sabah e i giovani kwaitiani, due ministri e uno sceicco quarantenni qualche mese fa hanno incontrato 30 blogger e una serie di giornalisti della rete. 

Che si sono detti? 
Pare che abbiano cercato di <<rompere il ghiaccio>> per capire cosa si muove dentro i social media e se c’è rischio di proteste giovanili. La mossa è interessante nella misura in cui ci dice che persino tra le ricche monarchie del Golfo – dove la democrazia è una chimera ma i petroldollari narcotizzano le coscienze – si inizia a sentire un po’ di paura. Nulla di eclatante è successo durante quel meeting informale, ci informa il giornale Arabian Business. 
Eppure un certo Mohammed al-Mubarak al-Sabah, influente membro dell’ultimissima generazione di sceicchi Al Sabah, è drammaticamente consapevole del rischio che presenta alla lunga un’economia retta unicamente sulle riserve petrolifere. Per il momento va a gonfie vele ma la manna non durerà in eterno. Il Fondo monetario internazionale ha già messo in guardia che queste riserve non sono infinite, anzi a pieno regime dureranno fino al 2017. 
Dopodiché se il Kwait non diversifica le sue attività economiche il rischio è che dovrà spendere sempre di meno. Sapranno sopportarlo i suoi “viziati” cittadini? I giovani ministri scelti dallo sceicco per il momento monitorano la situazione. Sono informali quanto basta e pronti a svecchiare l’immagine di monarchia ingessata. 
Eppure, dando un’occhiata ad uno dei blog gestiti da un giovane kwaitiano invitato al meeting (Q8path), viene da pensare che gli emiri non rischino poi così tanto. Anzitutto nell’homepage di Q8path campeggiano due foto dell’emiro “padre”. 
Poi tra i post più recenti inseriti dall’autore del blog ce n’è uno che parla delle prossime vacanze-premio in Inghilterra ed uno che illustra le qualità performanti della Mercedes Benz E300 Amg 2014, che l’autore dice di aver provato in un drive test. Se questa è la tipologia di blog che offre il ricco Kwait, la classe regnante può ancora sognare le mille e una notte.

giovedì 16 maggio 2013

Women of the Wall: se le ortodosse si schierano

Chiedono di poter pregare esattamente come gli uomini al Kotel, il Muro del Pianto di Gerusalemme, sfidando l’ortodossia religiosa ebraica. Le Women of the Wall, femministe ebraiche (in gran parte esponenti della 'Riforma') sono nate nel 1988, ma solo oggi riescono a farsi sentire in modo dirompente. La loro protesta sta facendo il giro del mondo, col contributo di Twitter. E' però la presenza delle ebree ortodosse a far la differenza: alcune hanno addirittura aderito al board del movimento, tutte le altre sono schierate con i rabbini haredim. La questione 'spacca' in due Israele e comincia ad irritare i laici.

Triste Rosh Chodesh
La poliziotta che l’“accompagna” all’esterno del Monte del Tempio, l’area sacra per eccellenza, seguita a vista da telecamere e fotografi, evita di ammanettarla, quasi le accarezza un braccio mentre la tiene ferma. La ragazza è figlia della rabbina Susan Silverman, che stavolta festeggerà anche lei, suo malgrado, il Rosh Chodesh dietro le sbarre del carcere di Gerusalemme. Hallel sui giornali appare sicura di sè.
Madre e figlia, entrambe attiviste di The Women of The Wall hanno “osato” sfidare le regole del Muro   imposte dall’ortodossia ebraica. Hanno pregato assieme ad altre decine di religiosissime donne ebraiche, esattamente come fanno gli uomini: indossando particolari paramenti sacri, leggendo ad alta voce la Torah (il libro sacro ebraico), cantando e srotolando le pergamene dei tefillin. E sono state per questo arrestate come avviene ogni volta che le donne si impossessano del rituale religioso maschile. Stavolta, però, è successo un putiferio, tanto che è al vaglio della Corte Suprema israeliana un compromesso “legale”.
Le Donne del Muro nascono in Israele 25 anni fa grazie ad Anat Hoffman che è attualmente una delle attiviste di punta del movimento. Ogni primo del mese (giorno di Rosh Chodesh) si ritrovano assieme percorrendo il dedalo di stradine della Città Vecchia. Entrano da una delle maestose porte antiche e a passo spedito raggiungono l’immacolato piazzale antistante il Muro del Pianto, indossando il talled (lo scialle sacro), la keppah e custodendo i rotoli del libro sacro. Fanno per questo imbestialire i rabbini sefarditi.
Preso posto nella porzione di Muro a loro riservata, le Women iniziano a pregare. Gli haredim spesso le insultano. Lanciano invettive. Qualcuno le strattona. Loro proseguono imperterrite, si danno la mano formando una catena. Finché non arrivano i poliziotti a portarle via. La scena si ripete ogni mese, più o meno teatralmente, da oltre 24 anni. Ad aprile di quest’anno, però, gli arresti hanno fatto il giro del web e del mondo. Anche grazie ai tweet di Sarah Silverman, nota attrice comica israeliana, sorella di Susan e zia di Hallel: Così orgogliosa di mia sorella e di mia nipote per il loro atto di disobbedienza civile>>, ha twittato Sarah.

L'adesione delle ortodosse
Queste retate spettacolari iniziano ad irritare profondamente tanto gli ebrei americani quanto i cittadini israeliani. Le Donne del Muro hanno centinaia di sostenitori ma la novità è che ora anche le ebree ortodosse si uniscono alle “progressiste” di Women of the Wall.
Haaretz, il quotidiano della sinistra israeliana, scrive: <<Molti israeliani si stupiranno di sapere che due degli otto membri del board di Women of the Wall sono in effetti donne ortodosse, una delle quali ha assunto questa posizione appena una settimana fa e sono in corso negoziazioni per farne entrare nel comitato altre due>>.
Se così fosse si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione interna che preoccupa lo Stato d’Israele perché allarga sempre di più il divario tra l’obsoleto mondo religioso ultra-ortodosso - fatto di regole penalizzanti per le donne, per i non ebrei, per gli arabi, per gli ebrei “riformati” – e quello più aperto e moderno dell’ebraismo legato alla Riforma americana. Tanto che la Corte Suprema ha dovuto aprire uno spiraglio ipotizzando una terza area di preghiera mista (uomini e donne assieme), dove sia possibile pregare tutti allo stesso modo. Si tratta del compromesso Sharansky (dal nome del procuratore che l’ha proposto) – sollecitato dal premier Nethanyau che vorrebbe chiudere una volta per tutte una disputa estremamente pericolosa per la tenuta del frammentato Stato ebraico.

La “Riforma” rinnova Israele
<<Noi cerchiamo di scalzare l’idea che debba per forza esistere un monopolio ortodosso in materia religiosa>> ci spiega la rabbina Namaah Kelman, 55 anni, americana, tre figli, femminista, oggi preside dell’Hebrew Union College di Gerusalemme ed esponente di punta della corrente della Riforma ebraica. In effetti nel 1948, quando nacque lo Stato d’Israele, i padri fondatori concessero al rabbinato ortodosso il controllo su molte delle questioni sociali e famigliari cruciali in Israele. Ma oggi questo monopolio andrebbe rivisto, come chiedono a gran voce i cittadini israeliani.
<<L’unico modo che abbiamo per far sentire la nostra voce è rivolgerci alla Corte Suprema, non alla Knesset (il Parlamento ebraico, ndr)>>, racconta la rabbina che è stata la prima donna ordinata rabbino a Gerusalemme nel lontano 1992. Lei sente di avere una missione, come tutti gli ebrei israeliani che aderiscono al movimento della Riforma: quella di diffondere un ebraismo nuovo, al passo con i tempi e in grado di mettere la donna al centro di una visione.
D’altro canto l’ultima cosa di cui Israele ha bisogno, soprattutto in questa delicata fase storica, è il calo dei consenso da parte degli Stati Uniti e in generale della diaspora ebraica nel mondo occidentale.
<<La nostra è una questione molto semplice – insistono le Donne del Muro lanciando in rete un tweet -. Chiediamo il pieno diritto delle donne a pregare liberamente al Kotel secondo il nostro credo>>.
Le rigide regole dei rabbini sefarditi vorrebbero ancora imporsi (come in passato) su un ebraismo “riformato” e moderno, su quello più progressista e sul grande universo dei laici. La sfida è aperta, anche se i numeri sono a favore degli ultraortodossi che “crescono” sempre di più grazie all’altissimo tasso di natalità. E’ comunque in corso una lotta tra un mondo ostile ai cambiamenti che fa a pugni con la pretesa democraticità dello Stato ebraico, e una legittima sete di modernità che pare inarrestabile. (Ilaria De Bonis)

giovedì 2 maggio 2013

La via tunisina alla democrazia

Di Ilaria De Bonis e Concetta Gelardi
Il noto predicatore islamico Nabil Al Awadhi, alla fine di gennaio di quest'anno dal Kwait è arrivato nella bellissima Zarzis, sulla costa meridionale tunisina. La gente lo ha acclamato, decine di bambine hanno sfilato per omaggiarlo e sono state fotografate in gruppo accanto a lui. Indossavano l’haik, il velo islamico. Le loro foto, scioccanti per una Tunisia moderata, hanno fatto il giro del web.
Piccole come bambole, nere e velate fino ai piedi, le bambine del paese dei gelsomini hanno incontrato il predicatore wahhabita conosciuto  nel mondo arabo per le sue fatwe.
La reazione di sdegno della società civile tunisina è stata immediata. Settanta deputati dell'Assemblea costituente tunisina, colpiti da quelle immagini, hanno presentato una mozione di condanna nei confronti di Nabil Al Awadhi. A guidarli era una donna, Wafa Marzouk, eletta nelle file del partito Ettakatol. 
Accade anche questo nella Tunisia post-rivoluzionaria che assaggia solo oggi il sapore della libertà e del confronto. «La democrazia si conquista giorno per giorno», dice la gente. E non è mai data per scontata.
«E’ ovvio che ognuno di noi, in ogni settore della società liberata dalla dittatura, ora voglia imporre un proprio modello di vita e di pensiero; –  ci spiega Chema Gargouri, tunisna doc, direttrice della Enterprises Fèminines Durable, Ong che promuove l’imprenditoria tra le donne - . Ma il bello di questa fase è che nessuno soccombe. C’è un dibattito interno, siamo vivi. Spesso ci scontriamo, ci confrontiamo. Se non siamo d’accordo manifestiamo». Anche contro i tentativi dei movimenti salafiti di manipolare la vita privata delle persone.

Incontriamo Chema in un bar italiano, di fronte ad un gigantesco Mono Prix, in un quartiere residenziale a nord di Tunisi. Rumorosa e trafficata, è la nuova zona commerciale, quella dei grandi magazzini. Lei arriva trafelata, ma decisa. Poggia la sua borsa Louis Vuitton sul tavolo e ordina un cappuccino. Chema non teme una minaccia islamica in Tunisia. Ha fiducia nelle mille sfaccettature della società più laica. E soprattutto ha fiducia nelle donne. 



La rimonta dell’opposizione 

«So che non siamo ancora al sicuro. Chi può pensare che questa transizione avvenga senza alcun rischio? - precisa lei che ha 46 anni, è islamica, ha due figli, ed è divorziata - . Ora sta avvenendo un’altra rivoluzione: quella psicologica. E’ un cambio di mentalità. I paesi occidentali pretendono che la Tunisia sia un modello perfetto, una sorta di ‘copia e incolla’ dalle democrazie europee. Se questo non succede gridano al pericolo islamico. Ma non si può cambiare in un solo giorno e neanche in un solo anno! E’ un processo lungo che stiamo affrontando».
Il crollo della dittatura è stato uno shock, una rivoluzione bella e spontanea che adesso lascia spazio alla mediazione.
«Credere che tutto cambi solo grazie alla fine di un regime e all'arrivo di un nuovo governo significa in un certo senso credere in una nuova dittatura», spiega ancora Chema.
Ennahda, partito al potere nell’attuale governo di transizione, è espressione di un islam tutto sommato moderato ma alcune sue frange risultano molto sensibili alle richieste dei movimenti salafiti. Eppure all’inizio di febbraio di quest’anno per la prima volta un sondaggio sulle intenzioni di voto dava Nidaa Tounes, partito laico d’opposizione, al primo posto.  Inoltre l'omicidio del leader dell'opposizione democratica, Chokri Belaid, il 6 febbraio scorso a Tunisi, ha ulteriormente indebolito i consensi attorno ad Ennahda. 
«Chi vincerà? – si domanda Fabio Merone, ricercatore della fondazione tedesca Gerda Henkel che finanzia un progetto sull’islamismo nella regione  - Vince chi riesce ad imporre il proprio discorso politico a patto che non usi la violenza». L'ex arcivescovo di Tunisi, monsignor Maroun Lahham, fa notare che «i paesi arabi che scelgono l’Islam politico devono sapere che questo o è moderato o non ha nessuna possibilità di riuscire. Nessun paese, arabo o non, può più vivere in un ghetto religioso o politico, tantomeno la Tunisia che ha una naturale apertura alla cultura del Mediterraneo».
Lahham dice anche che l’assenza dell'islam politico in Tunisia è stata solo apparente: «i regimi non permettevano l’esistenza di nessun partito serio d’opposizione. Quelli islamici esistevano ma erano oppressi, perseguitati e la persecuzione non ha fatto altro che donar loro più fermezza».
«Se si vuole un Islam politico moderato bisogna avere una forte opposizione», suggerisce la Gargouri. La società civile qui può ancora avere un ruolo, un impatto. Il lavoro deve esser fatto a partire dal basso, dalla base, dal rafforzamento dei diritti. Ma quanto si rischia ancora di cadere nelle mani degli estremismi ?

Primavera scippata?
L’incubo dell’occidente, e anche un po’ la sua nevrosi, è che le Primavere siano sostanzialmente fallite e che il futuro del post-rivoluzione si riveli peggiore della dittatura, compresa quella di Zine El-Abidine Ben Ali. I giovani e i professionisti che incontriamo a Tunisi e nelle cittadine turistiche sul mare, però, non sono affatto d’accordo: «Avete un’idea di com’era la Tunisia prima? Siamo in un momento di grande cambiamento, abbiamo molti partiti, fermento. Tutti hanno possibilità d’esprimersi», dice Ahmed Amine Tourki, consulente del ministero del turismo. Parla francese ma anche inglese e sa qualche parola di spagnolo e d’italiano.
Mentre sorseggiamo un thè ai pinoli e menta al Cafè les Nattes, nella parte alta della bianca Sidi Bou Said, tra narghilè, musica e relax, Ahmed ci spiega che «la rivoluzione è esplosa per ottenere tre cose, non solo il pane: libertà, lavoro e uguaglianza. Questo era un paese fortemente diseguale. Noi chiedevamo dignità. Ad un certo punto siamo stati maturi per reclamare la nostra dignità». E quando si arriva a questo punto di non ritorno, quando il popolo, a partire dalle banlieu, dai sobborghi più miseri e affamati della capitale e dell’entroterra, fino ai piani alti di Tunisi, sente di aver toccato quel punto lì, scompare anche la paura.

Oggi il centro di Tunisi è confusione, polvere e parole. Minareti, edifici coloniali in malora, stucchi scrostati. La folla prende mille direzioni, le auto si incastrano alle auto in ingorghi immaginari. Ai bordi delle strade venditori ambulanti di caramelle e calzini sostano senza limiti di tempo. Doveva essere ben più brillante ed energica avenue Bourghiba, il viale ‘parigino’ che spacca in due la città ed imita gli Champs Elysee, a gennaio del 2011, nei giorni della rivolta. Oggi è frenetica, stanca, caotica. I giovani passeggiano, prendono taxi ad ogni ora. Aspettano. La novità è che parlano liberamente e con chiunque. Intavolano discussioni, si collegano ad internet, aprono siti di news on-line, possono rivolgersi senza paura ai turisti. Raccontano la loro rivoluzione. Come Walid Masrouki e la sua bella moglie Faten, che appena trentenni, hanno fondato un giornale sul web, Tunis14. Chiediamo a Walid se teme l'affermazione di Ennhada: «La nostra soluzione siamo noi stessi. Sono le risorse umane necessarie per dirigere il paese. La soluzione non è Ennhada, è l’opposizione. Arrivi al popolo tramite la religione, ma poi servono capacità tecniche e politiche per governare ed Ennhada queste non ce le ha».  Walid e Faten sono molto 'europei', lei veste alla parigina. Andiamo a trovarli nella periferia ‘buona’ della capitale, Ariana. Ampi viali, villette, auto nei garage all’aperto, e appartamenti dalle vetrate enormi con i fiori rampicanti nei giardini. «Con Ben Ali non si sarebbe neppure potuta concepire un’intervista come questa», confessa Walid. «I giornalisti venivano fermati appena sbarcati in aeroporto, c’era censura su tutto». Svela di avere oltre mille followers su Twitter, e che il suo giornale nato da due mesi appena è più seguito della carta stampata ufficiale. «Con Ben Ali solo internet era libero – spiega - e la dittatura non ha saputo gestire questa richiesta di libertà. Quando ha provato a oscurare Facebook la gente è scesa in piazza». Adesso che il popolo non ha più paura cerca la propria strada alla democrazia.

Salafiti, jihadismo e Islam moderato
Le proposte sociali e politiche sono svariate: quella del jihadismo salafita preoccupa più di altre. «Il gruppo degli Ansar al-sharia cresce a vista d'occhio, e già al raduno di Kairouan, ad un anno dalla loro ufficializzazione (Maggio 2012), si sono riuniti in circa 10mila», scrive Fabio Merone. Ma chi sono esattamente i salafiti? Gli chiediamo.
«Il salafismo è una parte più generale del fenomeno dell’islamismo ma di per sé non costituisce un ostacolo alla democrazia – risponde lui, autore di numerosi articoli sull’argomento – Abbiamo due tipi di salafismo: quello scientifico, che spinge l’osservante ad un comportamento di rettitudine nella sfera privata, e poi quello jihadista che è per eccellenza un movimento politico. Prende le categorie della religione e le utilizza per affrontare una minaccia esterna o interna. In Tunisia ci sono entrambe: lo jihadismo si sta radicando molto nei quartieri popolari, soprattutto tra il sottoproletariato. Ansar al-sharia, ad esempio, è un movimento che si è ben organizzato e che costituisce un progetto alla luce del sole».
Eppure, dice ancora Merone, che vive da anni a Tunisi: «io penso che la democrazia tunisina non sia affatto in pericolo: oggi questo è un paese che con grande maturità non ha paura di guardare in faccia le sue mille contraddizioni. Il radicalismo islamico fa parte integrante della società arabo-musulmana. E questa non è una cosa nuova. La cosa nuova è che oggi la Tunisia mostra al mondo arabo di saper gestire le sue contraddizioni senza ricorrere allo strumento facile della repressione».
Il cosiddetto ‘modello tunisino’ da Bourghiba in poi, aveva piuttosto costipato la società tunisina. Aveva ‘nascosto’ quel che non piaceva ai governanti e che di rimando non piaceva neanche all’Europa: Francia e Italia in primis.
La rivoluzione e la cacciata di Ben Ali hanno tolto un tappo e portato allo scoperto le tante anime represse, religione compresa. Il partito di Ennhada è un’espressione di quello che non era stato eliminato ma solo messo ai margini.
«La parola jihadismo fa un po’ paura ma in realtà è un movimento giovanile. Nei giorni della rivolta esisteva un soggetto sociale rivoltoso urbano per le strade, che si contaminava molto con gli ultrà, con le organizzazioni giovanili da stadio che rappresentava esattamente l’altra faccia della Tunisia. Paradossalmente il salafismo per questi ragazzi disoccupati, poveri, senza chance, ha costituito il modo per veicolare il loro essere nella società. Da passivi e puramente violenti hanno cominciato ad esistere pubblicamente».
Ora sta ai tanti studenti, all’ottima elite intellettuale, agli attivisti, alle donne lavoratrici, alle centinaia di Ong, vigilare affinchè l’estremismo non abbia la meglio: è la sintesi di quello che andiamo raccogliendo tra i nostri interlocutori. Myriam, una giovane donna che andiamo a trovare a casa racconta la sua fede: «io sono musulmana perché tunisina. Questa è la mia cultura, sono le mie radici, come per voi europei quelle cristiane. La fede è una questione privata, nessuno può giudicarti se non Dio stesso. In Tunisia questa differenza è sempre stata netta e non credo proprio che si possa tornare indietro». Se domandi alla classe media se si senta più musulmana o più tunisina, dirà anzitutto tunisina. E nel frattempo come si vive in Tunisia? L’economia è ripartita?
 Tra sconforto e rinascita
Visi sorridenti, una lingua che passa senza troppa fatica dall’arabo al francese, all’inglese all’italiano: i tunisini parlano tranquillamente. Senza sfuggire, senza nascondersi, parlano tutti: dal tassista all’imprenditore, dallo studente al giornalista. Sono passati due anni da quel 14 gennaio 2010, quando Ben Ali lasciava il paese. «Spesso prevalgono disillusione e  sconforto: si può parlare liberamente di politica oggi, ma la situazione economica è al collasso», spiega Myriam che lavora in un ufficio legale. Lei la rivoluzione l’ha vissuta in prima persona. In quei giorni ha studiato, lavorato, ospitato giornalisti stranieri nella casa che condivide con un ragazzo francese. «Nessuno pensa a come possa sentirsi un popolo dopo lo shock di una rivoluzione», nota Myriam e ci spiega anche come le donne si percepiscano più vulnerabili oggi, meno sicure, meno tutelate. Sembra rattristata quando ammette: «noi non potremo godere appieno della libertà ritrovata, forse lo potranno fare i nostri figli, noi stiamo costruendo le fondamenta». Sul fatto che la rivoluzione sia stata genuina, voluta, inevitabile, i tunisini sembrano più o meno tutti d’accordo. 
Talvolta all’entusiasmo si alternano sentimenti di paura e di disagio, anche economico; al gusto della libertà ritrovata la preoccupazione per la scarsità di cibo, o il costo sempre più alto del carburante, la disoccupazione che avanza, una costituzione che non nasce, le elezioni democratiche rimandate di mese in mese…
I tunisini analizzano la situazione e la seguono costantemente, informandosi sull’evoluzione degli altri paesi arabi, come l’Egitto o la vicina Libia. I giovani che incontriamo hanno spesso studiato o lavorato all’estero, si sentono vicini all’Europa. Forti di un bilinguismo obbligatorio vogliono confrontarsi. Non accettano imposizioni ma sono consapevoli che la società civile è stata per anni anestetizzata.

«Quando  cresci sotto una dittatura non sei abituato a pensare in totale autonomia, a criticare, e molti miei coetanei sono così, non si interrogano, fanno quello che la famiglia o il nuovo potere comandano. Pensate che una delle pratiche più diffuse tra le giovani tunisine è l’imenoplastica, un’operazione che praticamente consente di arrivare  vergini al matrimonio», così Sabri un giovane pubblicitario che ha studiato in Francia e oggi lavora in Tunisia.
Nel suo ‘Chiacchiere datteri e thé’ la giornalista Ilaria Guidantoni si sofferma sulla differenza che c’è tra il portare «un velo sulla testa» o «dentro la testa». Nel primo caso si riscopre una cultura, nel secondo si uccide la libertà. Lei che ha passato molto tempo in Tunisia e ha scritto diversi libri, ci dice che: «la nazione è ricca di cultura e di materie prime, di risorse materiali e immateriali: ci sono poeti, scrittori, artisti. Si può contare su un artigianato di prestigio, una produzione di olio e vino ad alto livello; tutte potenzialità che restavano quasi nascoste nel periodo della dittatura».
La Tunisia insomma rimane un grande laboratorio d’idee e un Paese test tra quelli arabi: «Sono sicuro che ce la farà da sola: - è pronto a scommettere Merone - io sono ammirato, stanno dando una grande prova di maturità. Nonostante l’avanzata islamista e la crisi economica, ce la stanno mettendo davvero tutta».   

lunedì 29 aprile 2013

INCOGNITA SALAFITA


Da Popoli e Missione di maggio
 
I prestiti in danaro sono “una forma di usura” e come tali vanno rifiutati, anche se a prestare soldi è l’alleato numero uno tra i Paesi del Golfo: l’Arabia Saudita. A pronunciare il verdetto è il partito salafita egiziano al Nour che mette in guardia contro i 'crediti', considerati operazioni economiche contrarie alla sharia, la legge islamica. La componente islamica salafita esercita non poca influenza sulle società nordafricane, alle prese col post-Primavera. E infiamma ancora molto l’Egitto, tutt’altro che pacificato. Quello che sin dall’inizio è stato guardato con sospetto dagli analisti europei - il movimento islamico dei Fratelli Musulmani, da cui proviene il presidente egiziano Mohammed Morsi - appare meno radicale di quanto si temesse, ma facilmente in balia del “purismo” coranico.
 
«Più la generazione dei Fratelli guadagna importanza nel campo della legalità, più deve affrontare una reazione salafita che denuncia tali “modernizzazioni” come altrettante “concessioni”», dice François Burgat, direttore dell’Istituto francese del Vicino Oriente. Don Marko Talaat, sacerdote egiziano, diocesano di Al Fayoun, ci spiega che «i salafiti hanno preso potere, si impongono anche rispetto agli islamici moderati e sono finanziati principalmente dal Qatar. La situazione in Egitto è davvero peggiorata e la libertà ridotta a zero». La Muslim Bratherhood, più disposta al dialogo con l’Occidente, non è paragonabile al “cugino” salafita (“scientifico” o “jihadista” che sia), anche perché negli anni ha intrapreso profondi revisionismi dottrinari, ma appare oggi completamente nella mani dei radicali. «La linea della Chiesa cattolica in Egitto oggi è: né con i Fratelli musulmani né con i salafiti», dice ancora Talaat. E’ la libertà che va sostenuta.

 

 
 
 Non solo “Fratelli”
 
Sta di fatto che tutti «concentrati sull’ascesa della Fratellanza, gli analisti hanno trascurato l’esistenza di gruppi islamici ad essa alternativi», spiega Pietro Longo, direttore del programma Mediterraneo e Vicino Oriente presso l’istituto di Alti Studi in geopolitica.
 
I gruppi salafiti si muovono con caparbietà e molto vigore accanto (o in competizione con) ai partiti islamici tradizionali e moderati come al Nahda in Tunisia e al Hurriyya wa al ‘Adala in Egitto. Quest’ultimo, Libertà e Giustizia, è il braccio politico dei Fratelli egiziani. I salafiti non spuntano dal nulla ed hanno grandi aderenze sul campo: sono predicatori che riescono a far breccia nei cuori dei giovanissimi nei sobborghi più poveri, spesso disoccupati, esclusi da ogni processo decisionale, tenuti ai margini perfino dopo le Primavere.
 
«Ciò che attrae questi ragazze è il discorso di rottura con una società che riflette di loro un’immagine di perdenti – spiega Samir Amghar, sociologo esperto di salafismo in Francia - Il salafismo si impernia su un’inversione di valori: gli esclusi ritrovano una dignità e acquistano una certa visibilità». Per tutti gli altri, all’avanguardia delle rivolte, invece, i salafiti rappresentano un’involuzione rispetto a diritti e libertà faticosamente conquistati dopo il crollo dei regimi. 
 
Scientifici o jihadisti?
 
<<Il termine in origine si riferiva alle pratiche di vita quotidiana dei musulmani di prima generazione (i salaf salihina o “pii buoni”), modello di un’esistenza utopica>>, scrive Longo. Oggi sono una nebulosa imprevedibile: Burgat precisa che, nonostante la loro comparsa apparentemente recente (in seguito al ritorno in patria degli esiliati dall’Arabia Saudita, il Qatar, i Paesi del Golfo), «il loro credo tra i movimenti islamisti non ha nulla di nuovo». I salafiti si rifanno alle fonti primarie del Corano e della Sunna del profeta, ma vogliono rompere con il sapere e l’esperienza delle scuole giuridiche sunnite in materia teologica. Criticano ogni sacralizzazione dei “mediatori” che si interpongono tra i credenti e Dio e si attengono scrupolosamente agli hadith, le parole di Maometto. Inoltre «la Primavera araba ha resuscitato la distinzione tra un salafismo scientifico ed uno jihadista, il primo tendente alla diffusione del messaggio islamico attraverso la dawa (la predicazione), il secondo con il ricorso a metodi coercitivi», anche in politica, scrive ancora Pietro Longo.
 
Al Nur, fondato nel 2011 ad Alessandria, detiene otto seggi all’Assemblea Costituente, accetta la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura ma solo nei limiti della sharia. La democrazia dunque può essere impiegata, ma a patto che sia esercitata nei limiti della legge rivelata. 
 
 
Il Cairo non è Tunisi
 
 In effetti lo spazio ‘politico’ occupato dal salafismo egiziano si va allargando perché non è arginato da una forte opposizione interna. Così però non accade in Tunisia, dove la società civile è decisamente più strutturata: gli osservatori internazionali e locali a Tunisi non si stancano di spiegare la “specificità” tunisina. Per capirla meglio però occorre andare sul posto, soprattutto in occasione di grandi eventi internazionali come il World Social Forum di Tunisi. Il pluralismo politico qui non solo resiste ma apre nuovi spazi d’espressione. Nonostante l’omicidio del leader dell’opposizione democratica Chokri Belaid, ucciso il 6 febbraio scorso a Tunisi, ed episodi di crescente tensione, la società civile tunisina non si arrende. «Le donne gridano il dolore dei figli martiri che hanno dato la vita per un avvenire diverso. Donne intrepide che sono
 disposte a tutto per non lasciarsi rubare la rivoluzione», Filippo Ivardi, missionario comboniano, racconta quello che ha visto nelle settimane scorse a Tunisi.
 
Forse è questa la prova che ci si attendeva dai protagonisti della Primavera: anziché dare il via ad una spirale di violenze o gettare la spugna hanno saputo reagire con dignità. Dopo l’omicidio di Belaid, il partito che ha perso veramente consensi, conferma la gente, è stato Al Nahda, giudicato incapace di far fronte agli estremismi.
 
«La Tunisia si trova in un stretta: l’Europa la sta un po’ abbandonando. Dovremmo essere più rigorosi nei confronti dei nuovi governi e al contempo aiutare l’opposizione  a resistere. Io non credo ci siano scorciatoie nella vita dei popoli e delle nazioni; Non so se è più che altro una mia speranza, un affetto che nutro, ma non penso che la Primavera araba in Tunisia sia persa, e ad esser sincero neanche in Egitto. E’ adesso che dobbiamo essere più presenti», spiega Luigi Goglia, docente di Storia e istituzioni dell’Islam alla Terza Università di Roma. Così la pensano anche i missionari.
 
« Io sono molto ottimista: la situazione tunisina è completamente differente da quella egiziana – racconta suor Chantal Vankalck, religiosa belga dell’ordine delle Missionarie di Nostra Signora d’Africa a Tunisi -.Con la cacciata di Ben Ali qui qualcosa è cambiato per sempre e la presenza dei salafiti non è una minaccia ingestibile. L’impressione è che i giovani e soprattutto le donne, abbiano riconquistato una loro dignità e che non abbiano intenzione di perderla. Il punto ora è far sentire la vicinanza e l’appoggio della comunità internazionale in questa fase così delicata».
 
 Tra legalità ed estremismo
 
Il limite da non superare è quello posto dalla legalità, spiega anche Fabio Merone, ricercatore della Fondazione tedesca Gerda Henkel a Tunisi: «Finché i gruppi salafiti si esprimeranno senza far ricorso all’uso della violenza, la loro presenza rientra nel gioco democratico e non può essere ignorata. Rappresentano legittimamente una parte del popolo». Questo labile confine in realtà è stato varcato più di una volta, ma mai in maniera irreversibile. Basta camminare per le vie di Tunisi per scoprire un Paese che non ha affatto “bruciato” la sua Primavera. Qui, a differenza dell’Egitto, la società civile laica e “liberata” ha definitivamente superato il terrore del potere e ha guadagnato il diritto alla “parola”. E sa usarla molto bene.
 
Sono decine e decine le ong, le organizzazioni di donne, di giovani, di sindacati ed attivisti tunisini, gli intellettuali e i giornalisti pronti a “vigilare” sulla neo-nata democrazia. La comparsa del temuto Ansar al Sharia e di altri gruppi minori di salafiti tunisini è un monito costante al “pericolo” di una deriva fondamentalista islamica che tiene desta l’attenzione del popolo. Attraversando il lungo boulevard Bourghiba, che fu il simbolo della rivoluzione contro Ben Ali, si ha l’impressione di una “stanchezza” fisiologica subentrata all’entusiasmo del post-rivolta, ma anche questo è parte del processo, spiegano in molti. Tolto il tappo della dittatura anche i rappresentanti dell’estremismo islamico, un tempo messi alla gogna, sono tornati in patria e fanno proselitismo. Ma è con la forza guadagnata dalla libertà d’espressione e da una ritrovata dignità che i tunisini affrontano il pericolo di una deriva islamica. (Ilaria De Bonis)

martedì 2 aprile 2013

Zanzibar, paradiso amaro

Le palme e l’azzurro cristallino delle acque di Zanzibar non bastano a farne un paradiso. Da troppo tempo nell’isola indipendentista della Tanzania si registrano omicidi mirati: sacerdoti uccisi, cristiani minacciati, incendi di chiese.
Violenze inaudite rivendicate sostanzialmente dal gruppo fondamentalista islamico Uamsho, che in lingua swahili sta per “risveglio”. Dopo l’ultima drammatica esecuzione, quella di padre Evarist Mushi, lo scorso 18 febbraio, ucciso sulla soglia della chiesa di Betras, la stampa africana si è interrogata sui motivi storici, e anche sociali, che hanno
polarizzato il Paese, spaccandolo in due, lungo una faglia che appare esclusivamente religiosa. Nonostante cristiani e musulmani non si siano mai odiati.

Ecco un parere dell’editorialista tanzanese del Daily News locale, Tony Zakaria: «Perché un ristretto gruppo di estremisti sta causando tanti problemi al resto della popolazione in questi ultimi anni? –  ci scrive in una mail -. La sensazione è che la maggior parte dei musulmani non ha nulla contro i cristiani e i cattolici in particolare».

Zanzibar è un arcipelago della Tanzania dove oltre il 95% della popolazione appartiene all’islam e dove i cristiani sono vera minoranza, a differenza del resto della Tanzania. Accade che questi estremisti populisti (Uamsho nasce nel 2001) tengano in pugno i moderati, manipolando il popolo tramite lo strumento della paura, come spiega Zakaria.
 «Come potrebbero i cristiani dominare se anche lo volessero? Il mio timore è che se la violenza cresce, il seme dell’odio germoglierà anche da parte dei cristiani».


Perché il paese sia così connotato in senso religioso, tanto da polarizzarne la politica, lo spiega molto bene il ricercatore universitario tanzanese Ernest Boniface Makulilo, che in un suo lavoro intitolato Religion tensions in Tanzania: Christians versus Muslims, pubblicato per intero dal social network Academia.edu scrive: <<L’assenza di politiche etniche ha lasciato spazio a politiche religiose. La gente vive insieme e in armonia nei villaggi. Il problema è che lo sradicamento delle politiche etniche nella vita socio-economica ha lasciato un vuoto. The vacuum was not filled>>.
Ossia, il vuoto non è stato riempito. In seguito è stato rimpiazzato con <<l’affiliazione religiosa>> e qui sono sorte le prime tensioni.
Makulilo compie un’operazione interessante: va a ripescare episodi di violenza contro i musulmani, tornando indietro nel tempo. Ci mostra un dato che la stampa occidentale ignora. Fino agli anni Novanta la Tanzania è stata in grado di gestire molto bene le diversità religiose, senza tensioni e conflitti. Cos’è successo dopo?

Il 13 febbraio 1998 un episodio molto cruento segna la svolta in peggio: è noto come Mwembechai killings. In seguito a disordini che si erano registrati alcuni giorni prima, e alla denuncia fatta da un sacerdote cattolico a Dar es Salaam, la polizia tanzanese, il 13 febbraio di quell’anno, interviene in una moschea, col sospetto che si siano rifugiati al suo interno “ruffians and criminals”, ‘mascalzoni e criminali’.
Arresta donne anziane, crea il panico. La gente reagisce, la polizia spara lacrimogeni e poi proiettili sulla folla, uccidendo quattro persone. Questo eccidio è uno spartiacque: da qui in poi le tensioni crescono e vengono interpretate sempre più come un divario tra cristiani e musulmani.

La stampa africana oggi scrive che la politica è appiattita sulla religione: i due principali partiti politici sono uno cristiano (Chama Cha Mapinduzi, CCM) e l’altro islamico (Civic United Front, CUF).

L’Independent fa una considerazione sul reclutamento di persone da parte degli estremisti: <<E’ facile reclutare gente a Zanzibar a causa della povertà» dice Hothma Masoud, procuratore generale dell’isola. <<Ci sono elementi dell’islam radicale qui, ma precedentemente trovavano difficile ottenere un sostegno corposo>>.
Anche il portale internazionale Internationl Business Times insiste sull’argomento della povertà: la discordia a Zanzibar è esacerbata dalla sua dipendenza dal turismo. <<Zanzibar, famosa per il suo mix di culture arabe e africane, è una meta turistica di prim’ordine per gli occidentali. Hotel di lusso e bar trendy si trovano a poche miglia da scenari di povertà endemica e questa stridente contrapposizione ha aiutato a potenziare il sentimento estremista>>.
E ancora: <<Al di fuori delle stradine pittoresche di Stone Town, lontano dalle sdraio e dagli ombrelloni degli hotel vista mare, oltre un terzo della popolazione vive in estrema povertà. L’ampio sottoproletariato dei villaggi rurali o quello che condivide appartamenti nei casermoni di epoca sovietica, affronta problemi che di certo non compaiono nelle brochure turistiche>>.  (Ilaria De Bonis)

martedì 26 marzo 2013

Il terrore di re Abdallah

L’agenzia Onu per i rifugiati ha da poco annunciato che i profughi siriani superano quota un milione e il numero è in crescita.
Nella vicina Giordania oltre 2mila persone varcano ogni giorno il confine per approdare allo Zaatari refugee camp, sulle sabbie di un deserto maledetto. Nel paese dell’ashemita re Abdallah (e della consorte Rania) le maree umane terrorizzate dalla guerra di Assad ammontano ormai a più di 400mila persone, anche se uno dei varchi maggiori con la Siria è stato chiuso appena ieri per via degli scontri tra ribelli e militari al confine. Non che la Giordania sia nuova ai profughi: gli iracheni passarono il confine in più di un’occasione e i palestinesi sono ormai di casa.

Ma stavolta è tutto oltre misura. Usando un termine più che figurativo, spiraling, Antonio Guterres, a capo dell’Unhcr, ha detto che «la Siria s’avvia verso un disastro di proporzioni gigantesche». Il dramma della guerra civile, cioè, ha già intaccato Libano, Turchia e, per l’appunto, la Giordania. Le immagini di donne col capo coperto, bimbi al collo, incolonnate in lunghe file in marcia verso la terra giordana (dove il re, un tempo alleato di Assad, ora preme per mettere fine al conflitto anche militarmente), fanno talmente parte della quotidianità che non ci addolorano più. Eppure parlano da sole.

«Grazie a Dio ho salvato la mia famiglia – racconta un siriano di 70 anni al quotidiano turco Hurriyet –. I miei sette figli e 20 nipoti sono tutti con me in questo campo. Non credo che potrò mai rivedere casa, ma credo che le nostre preghiere avranno la meglio e i miei figli, con i loro figli un giorno ritorneranno in patria». A fronte di quest’emorragia di profughi Andallah è seriamente preoccupato d'un rischio 'contagio' e dei ribelli che avanzano. Guarda poi alle finanze fragili d'uno Stato a due passi dalla travagliata Palestina (e da Israele, col quale infatti cerca alleanze strategiche). L’equilibrio è precario per la tenuta di un regno da sempre vicino all’occidente, che non possiede più, però, il cieco consenso della popolazione giordana. E che appena pochi mesi fa sembrava ad un soffio dalla sua Primavera. (ilaria de bonis)

mercoledì 27 febbraio 2013

Il petrolio non finirà o forse sì. ma che importa?

Di Ilaria De Bonis- Gennaio 2013

 I giornali di mezzo mondo hanno rilanciato con enfasi la notizia che gli Stati Uniti supereranno presto l’Arabia Saudita nella produzione di petrolio, raggiungendo l’autosufficienza energetica nel 2020. Ma questa previsione, fornita dall’International Energy Agency è falsa a detta di alcuni scienziati che da anni si interrogano sul futuro delle risorse energetiche mondiali. E in ogni caso, la questione centrale non è tanto la quantità di petrolio ancora disponibile, quanto piuttosto i costi della sua estrazione...
Estrarre risorse naturali per trasformarle in energia costa. Trivellare pozzi e pompare il greggio fuori dai giacimenti avrà un prezzo sempre più elevato, anche perché l’oro nero sarà sempre più nascosto. E utilizzarlo richiede a sua volta energia. Tanta. Troppa. Che presto non potremo più permetterci in questi termini. Quindi dovremo fermarci ancor prima d’aver raggiunto il picco... La domanda corretta allora è: <<Chi arriverà per primo a toccare il fondo del barile?>>, oppure: <<A chi converrà ancora estrarre così tanto greggio nei decenni a venire?>>. C’è chi è pronto a scommettere sulla seconda.
Alcuni scienziati che fanno capo all’Association for the Study of Peak Oil (Aspo), tra i quali il professore universitario Ugo Bardi, e al Post Carbon Institute della California, dicono che interrogarci sic et sempliciter su quanto tempo ci separa dalla fine delle risorse energetiche (petrolio, ma anche carbone, litio, cadmio) è fuorviante. E ci fa perdere tempo. Ma un trabocchetto ricorrente diverge ciclicamente l’attenzione mondiale dai costi delle ricchezze del sottosuolo (e dal ‘ritorno’ energetico), alle loro quantità (secondo qualcuno prossime allo zero). Puntando i riflettori su previsioni e scommesse che ora allarmano, ora tranquillizzano l’opinione pubblica, a seconda delle esigenze.

Il recente rapporto pubblicato dall’International Energy Agency (Iea), autorevole istituto indipendente europeo, ad esempio, il World Energy Outlook, ha rilanciato con grande enfasi mediatica la questione dell’autosufficienza energetica americana, affermando che gli Usa supereranno addirittura l’Arabia Saudita nel 2030.

Questa conclusione non solo è stata smentita da recentissimi studi e non è realistica, ma è in ogni caso un falso vantaggio, spiega il professor Bardi, docente presso il dipartimento di chimica dell’Università di Firenze, in una conversazione con Popoli e Missione. Perché quello che ci interessa veramente è capire che estrarre petrolio (scoperto di continuo in nuovi giacimenti, soprattutto nelle acque profonde degli oceani) costerà in proporzione sempre di più per via delle esternalità negative. E che seppure alcuni Paesi dovessero aver maggiore disponibilità, temporaneamente, rispetto ad altri, o trovare nuovi giacimenti non sfruttati, il destino mondiale è già tracciato. E converge verso la decrescita. Meglio dunque pensare fin da ora a valide alternative.
<<L’esaurimento è un problema graduale – spiega Bardi, autore tra l’altro del bel saggio edito dalla University press, “La terra svuotata” - non c’è il rischio di finire la risorsa; molto spesso quando si parla di questi argomenti ci si domanda quando finirà il petrolio. E’ una domanda lecita che non ha una risposta… Non succederà mai che si arriverà a guardare nel buco della trivellazione del pozzo e… ops si scoprirà che non ce n’è più. Non avviene in questi termini>>.

Dunque, <<quando si sente dire: “Abbiamo riserve petrolifere per 40 anni”, questo è vero ma è limitante... Uso spesso l’esempio delle Ferrari: non c’è un problema di mancanza di Ferrari, se andate dal concessionario ve la potete comprare. Ma a quale prezzo?>>.
Ogni mese gli istituti di ricerca internazionali pubblicano report e dati che sul momento ottengono un’attenzione dirompente. L’ultimo Energy Outlook rivela tra l’altro che quando gli Usa raggiungeranno il traguardo dell’autosufficienza energetica, per il 55% ciò avverrà grazie all’aumento della produzione domestica, ma il rimanente 45% sarà una conseguenza dei risparmi e dei progressi di efficienza.
La ricercatrice Gail Tverberg è certo che <<l’International Energy Agency fornisce previsioni petrolifere inverosimilmente elevate>>. L'agenzia dichiara che il Nord America diventerà addirittura un esportatore di petrolio dal 2030 e implicitamente che non avrà più bisogno di scatenare guerre in Medio Oriente dal momento che non avrà più necessità di comprare il petrolio altrui.


<<Un motivo per cui queste stime sono irragionevoli – scrive sempre Tverberg - è che i prezzi del petrolio sono irragionevolmente bassi in relazione alle quantità di produzione previste nel rapporto>>.
E’ invece più realistico pensare che <<un po' del petrolio che conoscevamo, e che abbiamo contato come riserva, dovrà essere lasciato nel sottosuolo>> per mancanza di soldi. I consumatori, insomma, non se lo potranno più permettere.
Per dissimulare una tale nera prospettiva la Iea ha scatenato “la fanfara” del futuro energetico degli Stati Uniti <<e perché non si veda il declino ha infilato la produzione dei liquidi del gas naturale e il proverbiale petrolio da scisti, separato in questo caso, dagli altri petroli non convenzionali>>. Insomma ha sommato risorse non sommabili.
<<I ritorni decrescenti significano che gli Usa non aumenteranno mai molto la produzione>>, conclude Tverberg.
Un altro studioso, stavolta americano, Richard Heinberg, del Post Carbon Institute, da noi contattato, anche lui molto scettico circa i risultati dell’Iea, ci ha detto che secondo i suoi calcoli «la produzione di petrolio americano continuerà ad aumentare solo per una manciata di anni e raggiungerà il suo picco ad un livello che è significativamente più basso sia del picco mai raggiunto dalla nazione in ogni tempo (quello del 1970), sia del tasso di produzione dell’Arabia Saudita».
L’opinione sulla quale convergono questi studiosi della decrescita è che, volenti o nolenti, dobbiamo iniziare a decelerare, a consumare meno, ad investire in fonti alternative di energia, come il fotovoltaico. Insomma, se non il buonsenso, se non l’inquinamento ambientale e neanche il surriscaldamento globale – come dimostra il recente flop del summit di Doha - sarà banalmente il portafoglio a dirci che si deve decrescere. Come va ripetendo da anni il guru francese dell’altra economia, Serge Latouche.
<<Il problema principale è il blocco mentale che affligge la società industriale – incalza ancora Bardi – e che impedisce di vedere le soluzioni che sono a portata di mano. Energie rinnovabili di tutte le forme e tipologie, ristrutturazione del sistema industriale, innovazione: in realtà non abbiamo nessun limite a quello che possiamo fare per vivere una vita di prosperità>>.
Tutto questo ha a che vedere con l’attuale sistema finanziario-monetario: qualsiasi cosa accada prossimamente <<dobbiamo rallentare… Persino i fautori della crescita sono disposti ad ammettere che c’è un limite. Non possiamo mantenere questa crescita all’infinito. Andiamo verso una fase di rallentamento, la decrescita non è una cosa piacevole, sarebbe meglio stabilizzare>>.


D’altra parte, che le due fasi, di espansione e di recessione, di crescita e decrescita siano collegate, e spesso la seconda sia più repentina della prima, lo sapevano bene gli antichi: <<Lucio Anneo Seneca scriveva: “Volesse il cielo. Lucilio, che le cose andassero male alla stessa velocità con la quale crescono per andare bene” e invece la crescita è lenta e la rovina è rapida! Quando uno consuma risorse e accumula esternalità (inquinamento) accade che si ritrovi a farne presto le spese>>. La verità è sempre e soltanto una, dunque: l’illusione dell’onnipotenza.
<<Non avremmo mai dovuto pensare che l’economia sarebbe cresciuta per sempre, il che è fisicamente impossibile - rincara Heinberg -. In un modo o nell’altro la crescita economica si trasformerà nel suo opposto nei prossimi anni. Lo confermano i prezzi del petrolio persistentemente alti, ma anche lo sgonfiamento della più grande bolla del debito mai esistita nella storia, e persino l’accumulo dei costi provenienti dal cambiamento climatico. Ora la scommessa è reimparare a vivere senza la crescita che è stata la nostra condizione per centinaia di anni prima della rivoluzione dei combustibili fossili>>.
D’altro canto ogni era, ogni epoca produttiva pre e post-industriale, è stata caratterizzata dal passaggio da una risorsa naturale all’altra e dalla sostituzione di un tipo di energia con un’altra. Ma la sostituzione non è immediata.
<<Non esiste una meraviglia tecnologica – è la convinzione di Bardi - che ci toglie dai guai! Quando il petrolio ha sostituito il carbone, negli anni Cinquanta, il petrolio era il risultato di una crescita iniziata da circa un secolo. Non è accaduto che appena finito il carbone sia immediatamente spuntato fuori il petrolio!>>. Così come non accadrà che da qui a domani troveremo una fonte economica alternativa. Occorre investire, fare ricerca, sperimentare. In questo lasso di tempo, concorda Heinberg, possiamo decidere di competere oppure di cooperare: <<Vivere con meno è un must. La mia supposizione è che faremo meglio ad essere tutti più cooperativi!>>. (ilaria de bonis)