Di Ilaria De Bonis- Gennaio 2013
I giornali di mezzo mondo hanno rilanciato con enfasi la notizia che gli Stati Uniti supereranno presto l’Arabia Saudita nella produzione di petrolio, raggiungendo l’autosufficienza energetica nel 2020. Ma questa previsione, fornita dall’International Energy Agency è falsa a detta di alcuni scienziati che da anni si interrogano sul futuro delle risorse energetiche mondiali. E in ogni caso, la questione centrale non è tanto la quantità di petrolio ancora disponibile, quanto piuttosto i costi della sua estrazione...
Estrarre risorse naturali per trasformarle in energia costa. Trivellare pozzi e pompare il greggio fuori dai giacimenti avrà un prezzo sempre più elevato, anche perché l’oro nero sarà sempre più nascosto. E utilizzarlo richiede a sua volta energia. Tanta. Troppa. Che presto non potremo più permetterci in questi termini. Quindi dovremo fermarci ancor prima d’aver raggiunto il picco... La domanda corretta allora è: <<Chi arriverà per primo a toccare il fondo del barile?>>, oppure: <<A chi converrà ancora estrarre così tanto greggio nei decenni a venire?>>. C’è chi è pronto a scommettere sulla seconda.
Alcuni scienziati che fanno capo all’Association for the Study of Peak Oil (Aspo), tra i quali il professore universitario Ugo Bardi, e al Post Carbon Institute della California, dicono che interrogarci sic et sempliciter su quanto tempo ci separa dalla fine delle risorse energetiche (petrolio, ma anche carbone, litio, cadmio) è fuorviante. E ci fa perdere tempo. Ma un trabocchetto ricorrente diverge ciclicamente l’attenzione mondiale dai costi delle ricchezze del sottosuolo (e dal ‘ritorno’ energetico), alle loro quantità (secondo qualcuno prossime allo zero). Puntando i riflettori su previsioni e scommesse che ora allarmano, ora tranquillizzano l’opinione pubblica, a seconda delle esigenze.
Il recente rapporto pubblicato dall’International Energy Agency (Iea), autorevole istituto indipendente europeo, ad esempio, il World Energy Outlook, ha rilanciato con grande enfasi mediatica la questione dell’autosufficienza energetica americana, affermando che gli Usa supereranno addirittura l’Arabia Saudita nel 2030.
Questa conclusione non solo è stata smentita da recentissimi studi e non è realistica, ma è in ogni caso un falso vantaggio, spiega il professor Bardi, docente presso il dipartimento di chimica dell’Università di Firenze, in una conversazione con Popoli e Missione. Perché quello che ci interessa veramente è capire che estrarre petrolio (scoperto di continuo in nuovi giacimenti, soprattutto nelle acque profonde degli oceani) costerà in proporzione sempre di più per via delle esternalità negative. E che seppure alcuni Paesi dovessero aver maggiore disponibilità, temporaneamente, rispetto ad altri, o trovare nuovi giacimenti non sfruttati, il destino mondiale è già tracciato. E converge verso la decrescita. Meglio dunque pensare fin da ora a valide alternative.
<<L’esaurimento è un problema graduale – spiega Bardi, autore tra l’altro del bel saggio edito dalla University press, “La terra svuotata” - non c’è il rischio di finire la risorsa; molto spesso quando si parla di questi argomenti ci si domanda quando finirà il petrolio. E’ una domanda lecita che non ha una risposta… Non succederà mai che si arriverà a guardare nel buco della trivellazione del pozzo e… ops si scoprirà che non ce n’è più. Non avviene in questi termini>>.
Dunque, <<quando si sente dire: “Abbiamo riserve petrolifere per 40 anni”, questo è vero ma è limitante... Uso spesso l’esempio delle Ferrari: non c’è un problema di mancanza di Ferrari, se andate dal concessionario ve la potete comprare. Ma a quale prezzo?>>.
Ogni mese gli istituti di ricerca internazionali pubblicano report e dati che sul momento ottengono un’attenzione dirompente. L’ultimo Energy Outlook rivela tra l’altro che quando gli Usa raggiungeranno il traguardo dell’autosufficienza energetica, per il 55% ciò avverrà grazie all’aumento della produzione domestica, ma il rimanente 45% sarà una conseguenza dei risparmi e dei progressi di efficienza.
La ricercatrice Gail Tverberg è certo che <<l’International Energy Agency fornisce previsioni petrolifere inverosimilmente elevate>>. L'agenzia dichiara che il Nord America diventerà addirittura un esportatore di petrolio dal 2030 e implicitamente che non avrà più bisogno di scatenare guerre in Medio Oriente dal momento che non avrà più necessità di comprare il petrolio altrui.
<<Un motivo per cui queste stime sono irragionevoli – scrive sempre Tverberg - è che i prezzi del petrolio sono irragionevolmente bassi in relazione alle quantità di produzione previste nel rapporto>>.
E’ invece più realistico pensare che <<un po' del petrolio che conoscevamo, e che abbiamo contato come riserva, dovrà essere lasciato nel sottosuolo>> per mancanza di soldi. I consumatori, insomma, non se lo potranno più permettere.
Per dissimulare una tale nera prospettiva la Iea ha scatenato “la fanfara” del futuro energetico degli Stati Uniti <<e perché non si veda il declino ha infilato la produzione dei liquidi del gas naturale e il proverbiale petrolio da scisti, separato in questo caso, dagli altri petroli non convenzionali>>. Insomma ha sommato risorse non sommabili.
<<I ritorni decrescenti significano che gli Usa non aumenteranno mai molto la produzione>>, conclude Tverberg.
Un altro studioso, stavolta americano, Richard Heinberg, del Post Carbon Institute, da noi contattato, anche lui molto scettico circa i risultati dell’Iea, ci ha detto che secondo i suoi calcoli «la produzione di petrolio americano continuerà ad aumentare solo per una manciata di anni e raggiungerà il suo picco ad un livello che è significativamente più basso sia del picco mai raggiunto dalla nazione in ogni tempo (quello del 1970), sia del tasso di produzione dell’Arabia Saudita».
L’opinione sulla quale convergono questi studiosi della decrescita è che, volenti o nolenti, dobbiamo iniziare a decelerare, a consumare meno, ad investire in fonti alternative di energia, come il fotovoltaico. Insomma, se non il buonsenso, se non l’inquinamento ambientale e neanche il surriscaldamento globale – come dimostra il recente flop del summit di Doha - sarà banalmente il portafoglio a dirci che si deve decrescere. Come va ripetendo da anni il guru francese dell’altra economia, Serge Latouche.
<<Il problema principale è il blocco mentale che affligge la società industriale – incalza ancora Bardi – e che impedisce di vedere le soluzioni che sono a portata di mano. Energie rinnovabili di tutte le forme e tipologie, ristrutturazione del sistema industriale, innovazione: in realtà non abbiamo nessun limite a quello che possiamo fare per vivere una vita di prosperità>>.
Tutto questo ha a che vedere con l’attuale sistema finanziario-monetario: qualsiasi cosa accada prossimamente <<dobbiamo rallentare… Persino i fautori della crescita sono disposti ad ammettere che c’è un limite. Non possiamo mantenere questa crescita all’infinito. Andiamo verso una fase di rallentamento, la decrescita non è una cosa piacevole, sarebbe meglio stabilizzare>>.
Estrarre risorse naturali per trasformarle in energia costa. Trivellare pozzi e pompare il greggio fuori dai giacimenti avrà un prezzo sempre più elevato, anche perché l’oro nero sarà sempre più nascosto. E utilizzarlo richiede a sua volta energia. Tanta. Troppa. Che presto non potremo più permetterci in questi termini. Quindi dovremo fermarci ancor prima d’aver raggiunto il picco... La domanda corretta allora è: <<Chi arriverà per primo a toccare il fondo del barile?>>, oppure: <<A chi converrà ancora estrarre così tanto greggio nei decenni a venire?>>. C’è chi è pronto a scommettere sulla seconda.
Alcuni scienziati che fanno capo all’Association for the Study of Peak Oil (Aspo), tra i quali il professore universitario Ugo Bardi, e al Post Carbon Institute della California, dicono che interrogarci sic et sempliciter su quanto tempo ci separa dalla fine delle risorse energetiche (petrolio, ma anche carbone, litio, cadmio) è fuorviante. E ci fa perdere tempo. Ma un trabocchetto ricorrente diverge ciclicamente l’attenzione mondiale dai costi delle ricchezze del sottosuolo (e dal ‘ritorno’ energetico), alle loro quantità (secondo qualcuno prossime allo zero). Puntando i riflettori su previsioni e scommesse che ora allarmano, ora tranquillizzano l’opinione pubblica, a seconda delle esigenze.
Il recente rapporto pubblicato dall’International Energy Agency (Iea), autorevole istituto indipendente europeo, ad esempio, il World Energy Outlook, ha rilanciato con grande enfasi mediatica la questione dell’autosufficienza energetica americana, affermando che gli Usa supereranno addirittura l’Arabia Saudita nel 2030.
Questa conclusione non solo è stata smentita da recentissimi studi e non è realistica, ma è in ogni caso un falso vantaggio, spiega il professor Bardi, docente presso il dipartimento di chimica dell’Università di Firenze, in una conversazione con Popoli e Missione. Perché quello che ci interessa veramente è capire che estrarre petrolio (scoperto di continuo in nuovi giacimenti, soprattutto nelle acque profonde degli oceani) costerà in proporzione sempre di più per via delle esternalità negative. E che seppure alcuni Paesi dovessero aver maggiore disponibilità, temporaneamente, rispetto ad altri, o trovare nuovi giacimenti non sfruttati, il destino mondiale è già tracciato. E converge verso la decrescita. Meglio dunque pensare fin da ora a valide alternative.
<<L’esaurimento è un problema graduale – spiega Bardi, autore tra l’altro del bel saggio edito dalla University press, “La terra svuotata” - non c’è il rischio di finire la risorsa; molto spesso quando si parla di questi argomenti ci si domanda quando finirà il petrolio. E’ una domanda lecita che non ha una risposta… Non succederà mai che si arriverà a guardare nel buco della trivellazione del pozzo e… ops si scoprirà che non ce n’è più. Non avviene in questi termini>>.
Dunque, <<quando si sente dire: “Abbiamo riserve petrolifere per 40 anni”, questo è vero ma è limitante... Uso spesso l’esempio delle Ferrari: non c’è un problema di mancanza di Ferrari, se andate dal concessionario ve la potete comprare. Ma a quale prezzo?>>.
Ogni mese gli istituti di ricerca internazionali pubblicano report e dati che sul momento ottengono un’attenzione dirompente. L’ultimo Energy Outlook rivela tra l’altro che quando gli Usa raggiungeranno il traguardo dell’autosufficienza energetica, per il 55% ciò avverrà grazie all’aumento della produzione domestica, ma il rimanente 45% sarà una conseguenza dei risparmi e dei progressi di efficienza.
La ricercatrice Gail Tverberg è certo che <<l’International Energy Agency fornisce previsioni petrolifere inverosimilmente elevate>>. L'agenzia dichiara che il Nord America diventerà addirittura un esportatore di petrolio dal 2030 e implicitamente che non avrà più bisogno di scatenare guerre in Medio Oriente dal momento che non avrà più necessità di comprare il petrolio altrui.
<<Un motivo per cui queste stime sono irragionevoli – scrive sempre Tverberg - è che i prezzi del petrolio sono irragionevolmente bassi in relazione alle quantità di produzione previste nel rapporto>>.
E’ invece più realistico pensare che <<un po' del petrolio che conoscevamo, e che abbiamo contato come riserva, dovrà essere lasciato nel sottosuolo>> per mancanza di soldi. I consumatori, insomma, non se lo potranno più permettere.
Per dissimulare una tale nera prospettiva la Iea ha scatenato “la fanfara” del futuro energetico degli Stati Uniti <<e perché non si veda il declino ha infilato la produzione dei liquidi del gas naturale e il proverbiale petrolio da scisti, separato in questo caso, dagli altri petroli non convenzionali>>. Insomma ha sommato risorse non sommabili.
<<I ritorni decrescenti significano che gli Usa non aumenteranno mai molto la produzione>>, conclude Tverberg.
Un altro studioso, stavolta americano, Richard Heinberg, del Post Carbon Institute, da noi contattato, anche lui molto scettico circa i risultati dell’Iea, ci ha detto che secondo i suoi calcoli «la produzione di petrolio americano continuerà ad aumentare solo per una manciata di anni e raggiungerà il suo picco ad un livello che è significativamente più basso sia del picco mai raggiunto dalla nazione in ogni tempo (quello del 1970), sia del tasso di produzione dell’Arabia Saudita».
L’opinione sulla quale convergono questi studiosi della decrescita è che, volenti o nolenti, dobbiamo iniziare a decelerare, a consumare meno, ad investire in fonti alternative di energia, come il fotovoltaico. Insomma, se non il buonsenso, se non l’inquinamento ambientale e neanche il surriscaldamento globale – come dimostra il recente flop del summit di Doha - sarà banalmente il portafoglio a dirci che si deve decrescere. Come va ripetendo da anni il guru francese dell’altra economia, Serge Latouche.
<<Il problema principale è il blocco mentale che affligge la società industriale – incalza ancora Bardi – e che impedisce di vedere le soluzioni che sono a portata di mano. Energie rinnovabili di tutte le forme e tipologie, ristrutturazione del sistema industriale, innovazione: in realtà non abbiamo nessun limite a quello che possiamo fare per vivere una vita di prosperità>>.
Tutto questo ha a che vedere con l’attuale sistema finanziario-monetario: qualsiasi cosa accada prossimamente <<dobbiamo rallentare… Persino i fautori della crescita sono disposti ad ammettere che c’è un limite. Non possiamo mantenere questa crescita all’infinito. Andiamo verso una fase di rallentamento, la decrescita non è una cosa piacevole, sarebbe meglio stabilizzare>>.
D’altra parte, che le due fasi, di espansione e di recessione, di crescita e decrescita siano collegate, e spesso la seconda sia più repentina della prima, lo sapevano bene gli antichi: <<Lucio Anneo Seneca scriveva: “Volesse il cielo. Lucilio, che le cose andassero male alla stessa velocità con la quale crescono per andare bene” e invece la crescita è lenta e la rovina è rapida! Quando uno consuma risorse e accumula esternalità (inquinamento) accade che si ritrovi a farne presto le spese>>. La verità è sempre e soltanto una, dunque: l’illusione dell’onnipotenza.
<<Non avremmo mai dovuto pensare che l’economia sarebbe cresciuta per sempre, il che è fisicamente impossibile - rincara Heinberg -. In un modo o nell’altro la crescita economica si trasformerà nel suo opposto nei prossimi anni. Lo confermano i prezzi del petrolio persistentemente alti, ma anche lo sgonfiamento della più grande bolla del debito mai esistita nella storia, e persino l’accumulo dei costi provenienti dal cambiamento climatico. Ora la scommessa è reimparare a vivere senza la crescita che è stata la nostra condizione per centinaia di anni prima della rivoluzione dei combustibili fossili>>.
D’altro canto ogni era, ogni epoca produttiva pre e post-industriale, è stata caratterizzata dal passaggio da una risorsa naturale all’altra e dalla sostituzione di un tipo di energia con un’altra. Ma la sostituzione non è immediata.
<<Non esiste una meraviglia tecnologica – è la convinzione di Bardi - che ci toglie dai guai! Quando il petrolio ha sostituito il carbone, negli anni Cinquanta, il petrolio era il risultato di una crescita iniziata da circa un secolo. Non è accaduto che appena finito il carbone sia immediatamente spuntato fuori il petrolio!>>. Così come non accadrà che da qui a domani troveremo una fonte economica alternativa. Occorre investire, fare ricerca, sperimentare. In questo lasso di tempo, concorda Heinberg, possiamo decidere di competere oppure di cooperare: <<Vivere con meno è un must. La mia supposizione è che faremo meglio ad essere tutti più cooperativi!>>. (ilaria de bonis)
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