mercoledì 21 novembre 2012

GAZA: "Papà portami via di qui..."

I bambini di Gaza terrorizzati chiedono ai genitori di poter scappare «in un posto sicuro». Di lasciare quella striscia di terra chiusa su tre lati e bombardata di continuo dai droni israeliani. Un padre risponde: «amore (abibi) non è possibile muoverci, non possiamo andare da nessuna parte. Dove scappiamo? Stanno bombardando a Rafah, a Deir el baalh, a Gaza city… ovunque». E dalla Striscia non si esce. Intrappolati come topi i civili cercano di evitar la morte, sperando che stavolta quel missile lanciato a caso non cada proprio sulle loro teste.  Queste testimonianze sono state raccolte dai cooperanti italiani che lavorano a Gaza con le Ong EducAid, Overseas, Ciss, Acs e Cric. Raccontano il dramma di un attacco che anche oggi non si placa, nonostante la richiesta di una tregua.

Nel momento in cui scriviamo l'accordo per un cessate il fuoco sembra arenato, nonostante la mediazione dell'Egitto. Inoltre la notizia di un attentato su un bus pubblico a Tel Aviv (20 feriti) fa temere per il peggio. I cooperanti italiani sono stati evacuati da Gaza dopo il sesto giorno di guerra per motivi di sicurezza, ma chiedono di poter rientrare perché la popolazione locale  ha bisogno d’aiuto.


«Hanno completamente raso al suolo la casa di mia sorella. Un drone ha colpito con un missile il loro giardino. Le sei famiglie, 50 persone, che stavano nell’edificio sono subito scappate via. Neanche 10 minuti dopo hanno bombardato la casa di tre piani, distruggendola completamente. Sono qui sul posto e non so come descrivere quello che vedo. Dovreste essere qui per vedere, per poter capire! Altre due case sono state distrutte dalle bombe. Altre 15 case sono state danneggiate gravemente”. A parlare è Sharif, da Beit Hanoun, 35mila abitanti, a nordest della Striscia di Gaza, appena sei chilometri dalla città israeliana di Sderot. I civili palestinesi non possono in alcun modo lasciare Gaza nonostante l’attacco sistematico e imprevedibile dei droni israeliani.

«A Gaza i boati dei bombardamenti scandiscono le giornate e le notti insonni della gente rinchiusa nelle case – si legge nel rapporto dei cooperanti italiani -  Il cielo è invaso dal rumore costante dei droni e dei caccia F16 che sorvolano in continuazione tutta la Striscia con il loro carico di distruzione, e dal mare arrivano i colpi dell’artiglieria delle navi militari». Per accettare una tregua Israele ha chiesto che prima cessi il lancio di razzi qassam di Hamas sulle coste di Israele. Hamas vuole lo stop dell'embargo alla Striscia.

Dalle testimonianze raccolte in strada il 19 novembre scorso leggiamo che  «la notte è impossibile dormire. Stanotte cercavo di dormire per quaranta minuti, un’ora e poi un bombardamento, poi provavo a stendermi un attimo e di nuovo un boato. I miei bambini riescono a dormire solo un po’ di giorno. Mio figlio Uasim di tre anni mi ha detto: “Papà, papà ti prego andiamocene da qui, andiamo in un posto sicuro” ».
Nell'attesa che la mediazione internazionale porti ad un cessate il fuoco, la popolazione palestinese continua a soffrire e a morire: Inas, da Deir Al Balah racconta:  «E’ terrificante. Sto cercando di allontanare dalla mia testa il pensiero che i miei figli possano morire bruciati come è accaduto ai bambini della famiglia Al Dalou». (Ilaria De Bonis)

lunedì 29 ottobre 2012

Ma che complotto, è una rivoluzione!

Intervista di Ilaria De Bonis a padre Dall'Oglio (Popoli e Missione novembre 2012)
 «In Siria non c’è nessun complotto, c’è una rivoluzione. Ma oggi, e sempre più in modo studiato e cosciente, sono attive delle strutture di manipolazione dell’informazione che si muovono in modo negazionista», spiega padre Paolo Dall’Oglio, che incontriamo a Roma.
Monaco gesuita, rifondatore del monastero siriano di Deir Mar Musa, espulso da Damasco nel novembre 2011, padre Paolo possiede una lucidità d’analisi rara. La sua storia è molto nota e lui da tempo è nel mirino del regime: «La calunnia lavora e lavora bene – dice -; io rischio di pagare un prezzo ecclesiale pazzesco per questo; vengo continuamente additato come il prete dei terroristi, il prete della rivoluzione, il prete politico, il prete schierato, il prete per le armi». In realtà la sua posizione è molto lineare: «La violenza rivoluzionaria è un prodotto della repressione di Stato. La conciliazione nazionale deve avere l’ultima parola, ma non posso negare, e qui ripeto l’insegnamento della Chiesa cattolica, che i popoli hanno diritto a difendersi».
Chiariamo anzitutto un primo punto: perché i ribelli hanno iniziato a combattere?
«Se le persone avessero potuto manifestare liberamente fino ad ottenere i loro diritti democratici, il regime sarebbe già finito da un pezzo, come in Egitto. Ma in piazza non ci sono mai arrivate. Assad ha deciso di militarizzare l’opposizione, spingendo, attraverso la repressione, il movimento popolare a non avere altra scelta. Nella misura del possibile la scelta non violenta è auspicabile. Io non faccio che dire: chi può agire in modo non violento continui a farlo. Ma la maggior parte dei siriani non può. La gente si sta difendendo».
La comunità internazionale, non sostenendo la rivoluzione, di fatto lascia morire civili innocenti.
«Siccome la comunità internazionale ha collaborato col regime nell’obbligare il popolo siriano a prendere le armi per difendersi, non può ora utilizzare l’argomento delle armi per giustificare il mancato soccorso ad un popolo infortunato. Questo è un peccato di omissione gravissimo».
Si sente sempre più spesso parlare di complotti: potenze internazionali avrebbero preparato la rivolta, manovrando e armando i ribelli.

«Una delle più pericolose teorie costruite ad arte parla di un’alleanza tra imperialismo petrolifero e islam fondamentalista salafita. Tra gli alleati ci sarebbero fratelli musulmani e alcuni europei come la Francia. D’altronde qui si va sulle farneticazioni: è difficile descrivere questa caricatura perché è paranoica di natura. C’è sicuramente il progetto di assoggettare la Siria ad una logica di appartenenza comunitario -religiosa e favorire così la divisione del Medio Oriente in Stati di tipo confessionale».
Le comunità cristiane sono in pericolo in Siria? Sono vittime della violenza dell’opposizione sunnita?
«Se è vero che nelle grandi città come Aleppo e Damasco i cristiani siriani hanno vissuto con i sunniti, è vero però che negli ultimi 40 anni sono venuti a formare una specie di sindacato delle minoranze con gli alawiti (setta sciita al potere con gli Assad). E che quindi una parte dei cristiani reagisce come gli alawiti con un desiderio di salvare il salvabile di questo regime. In tal modo si bevono la teoria del complotto. Per convergenza di timori, attitudine islamofoba e paura del popolo musulmano al potere, si cede alla teoria del complotto e si giustifica la resistenza delle minoranze asserragliate nel palazzo degli Assad».
 Cos’è il movimento Mussalah?
«Letteralmente significa Riconciliazione. Questa parola io l’ho usata per la prima volta nel settembre 2011 in un digiuno per la riconciliazione, ad una condizione: il riconoscimento della libertà di opinione e di espressione concreto e pratico, chiedendo a 50mila operatori della comunità mondiale che venissero a sostenere la mutazione democratica della società siriana. Questa richiesta è tranquillamente caduta nel vuoto. E ha portato al mio decreto di espulsione nel novembre 2011 da parte del ministero degli Esteri siriano. Dopo la tragedia di Homs, alcuni sacerdoti in gamba hanno proposto la Mussalah. Infine c’è un terzo movimento che è la strumentalizzazione del secondo, soprattutto in ambiti cattolici favorevoli al regime: il vescovo di Aleppo, il patriarca melchita Gregorios, suor Agnès-Mariam de la Croix e altri dicono che è una terza via tra violenza di regime e violenza rivoluzionaria».
Nel frattempo migliaia di persone continuano a morire. Perché l’Onu non interviene?

«Siamo attualmente in uno stato di omissione di soccorso. Ma c’è un fenomeno più sottile: l’uso del sangue dei siriani per la promozione di interessi geo-strategici confliggenti. La Russia usa il sangue siriano per opporsi alla Nato, la Turchia per opporsi all’Iran, Israele per elidere due nemici in un colpo solo, i Fratelli musulmani sono parte in causa. Ciascuno fa il suo gioco sul sangue dei siriani. Nella guerra i due contendenti pensano di guadagnarci qualcosa. Quindi non si va al negoziato geo-strategico, costituzionale, regionale. Non si gioca il negoziato perché si gioca la guerra».
Cosa fare per uscirne? Sostenere militarmente i ribelli?

«Attualmente l’Onu è inutilizzabile, paralizzata dalla Russia che mette il veto. Quindi ora bisogna fare due cose assieme: far in modo che il regime perda militarmente (ed è qui che mi si accusa di voler fare la guerra, ma questo semplicemente fa parte del soccorso); offrire ai migliori dei ribelli le armi sufficienti per interrompere il bombardamento aereo. Se questo obiettivo strategico si otterrà, il regime comincerà a perdere e ciò porterà ad una nuova disponibilità negoziale. Questo dovrebbe avvenire tramite il canale indiretto Nato: si autorizza un controllo Nato che consente l’avanzata della rivoluzione verso Aleppo. Aleppo diventa la capitale temporanea. Questo dovrebbe favorire un incurvamento della volontà russa e iraniana ed una disponibilità ad una decisione del Consiglio di Sicurezza. E’ la linea che sembra prevalere al momento». (Ilaria De Bonis)

L'ALTRA EDICOLA - Trappole mediatiche

La tv araba Al-Arabiya lo ha da subito giudicato ‘amatoriale’, a basso budget e di pessima qualità. Un’esca mediatica senza precedenti. Eppure ha quasi scatenato una guerra di religione. La cronologia degli eventi – nel frattempo persa nell’etere – aiuta a ricostruire il caso di ‘Innocence of Muslims’, un (finto) film blasfemo sul profeta Maometto, che ha scatenato violenze, proteste e rappresaglie in gran parte del mondo islamico. Stavolta a cadere in trappola sono stati sia l’occidente che il Medio Oriente (e anche l’Asia con il Pakistan in prima linea). Perché?

 
Il sito di AlJazeera il 13 settembre scorso, a quattro giorni dal lancio in grande stile del link postato su YouTube, si è chiesto <<come è possibile che un oscuro film provocatore di odio abbia guadagnato la scena mondiale?>>. E’ proprio questa la domanda che la stampa internazionale si pone a posteriori. «Camilleri definirebbe l’autore di questo film ‘mastro d’opra fina’. Come prodotto artistico è una schifezza irripetibile, ma come operazione di guerra psicologica è assolutamente impeccabile, da manuale direi», dice Aldo Giannulli, intervistato dalla rivista MicroMega. E' un caso peraltro molto diverso da quello delle vignette satiriche su Maometto comparse qualche settimana dopo sul franese Charlie Hebdo. La satira non è oltraggio gratuito, un film offensivo costruito ad arte sì.


«Se una cosa del genere scoppia in modo così repentino, significa che qualcuno, oltre ad averci messo dei soldi, ha organizzato alla perfezione il lancio del film via web proprio allo scopo di ottenere un’eco mediatica come quella che abbiamo visto». In effetti il video clip di 14 minuti è stato inizialmente caricato su Youtube a luglio del 2012 con il titolo The Real Life of Muhammad e Muhammad Movie Trailer. Poi a settembre al trailer sono stati aggiunti dei sottotitoli in lingua araba ed è stato promosso da Morris Sadek (predicatore cristiano copto, noto per le sue proteste contro la costruzione di una moschea a Ground Zero, bibbia alla mano) tramite l’invio di mail ad un elenco di giornalisti e poi lanciato sul blog The National American Coptic Assembly. Questo è un passaggio chiave.
Il secondo passaggio, che ha poi creato il caso, è avvenuto il 9 settembre scorso con la trasmissione del video su Al-Nas Tv, una rete islamista egiziana. Sempre sponsorizzato da Sadek. La ricostruzione dei fatti conferma che se non ci fosse stata la volontà, da parte di ambigui personaggi, di creare un caso e provocare entrambe le parti (quella di religione islamica per la reazione, quella occidentale per l’interpretazione) internet da solo non avrebbe sortito alcun effetto. Demonizzare la rete dunque è fuorviante.
La stampa occidentale soprattutto nei primi scomposti momenti di caos si concentra quasi esclusivamente sull’autore del trailer, il ‘regista’ Nakoula Basseley Nakoula, 55 anni, arrestato infine a Los Angeles, confondendo ancora una volta le acque. Per giorni il focus mediatico è stato sull’identità di Nakoula e dei suoi attori. Non su chi avesse effettivamente dato fuoco alle ceneri. Perdendo di vista il fatto che il contenuto di un trailer tanto puerile e denigrante (soprattutto per chi l’aveva realizzato), fosse riuscito da solo a scatenare un odio globale manipolato. Da qui una serie di digressioni appetibili per la stampa: l'Huffington Post e il sito Gawker ad un certo punto danno la notizia che il regista sarebbe un certo Alan Roberts autore di soft porno. L’Huffington Post trova il giusto focus solo il 14 settembre quando titola “Morris Sadek, The 'Maverick' Egyptian-American Copt Behind Anti-Islamic Film 'Innocence Of Islam”.
«L’uomo che ha tradotto in arabo il video, lo ha spedito ai giornalisti egiziani e promosso sul suo sito web, postandolo sui social media, è un oscuro cristiano copto di origini egiziane che vive vicino Washington».  (Ilaria De Bonis)

giovedì 13 settembre 2012

L'ALTRA EDICOLA- Primavere soft e rivoluzioni

(Ilaria De Bonis, da Popoli e Missione di settembre 2012)



Il 23 luglio scorso migliaia di giovani marocchini si sono dati appuntamento in piazza, a Rabat, per  denunciare la corruzione del nuovo governo di Abdelilah Benkiran. A distanza di un anno e mezzo dalla prima grande manifestazione il movimento di protesta 20 Febbraio non s’arrende. Sebbene quasi ignorato dai grandi quotidiani occidentali.

Afrik, sito di news con sede in Francia, titolava nel luglio scorso: Maroc: manifestation massive des jeunes. Di questa corposa protesta che traccia rimane sui giornali europei, occupati a tempo pieno con la crisi dell’euro? La silenziosa e costante rivolta marocchina è in effetti tra quelle che l’Occidente non considera Primavere. Sottovalutate sono anche quelle giordana e sudanese, in realtà estremamente significative. I segnali di novità provenienti dai Paesi più defilati dell’Africa appaiono invece monitorati, oltre che da quotidiani tradizionalmente attenti alle lotte sociali come Le Monde (“La corruzione regna sovrana in Marocco” titolava il 25 giugno scorso), da alcune nicchie di informazione on line che dedicano loro ampio spazio.
E’ il caso di Cafebabel, rivista on line paneuropea: <<Le rivendicazioni avanzate dai manifestanti marocchini s’inseriscono nel filone della Primavera araba – democrazia, libertà, giustizia sociale – ma non prevedono l’esilio del re>>. Per questo a noi appaiono meno efficaci o forse solo meno pericolose. <<Diversi sono quelli che in Marocco dicono che il re deve cedere parte del suo potere, senza per questo rivendicare la sua abdicazione>>, ancora Cafebabel. A Rabat, nel luglio scorso, <<i dimostranti urlavano slogan denunciando il primo ministro Benkirane e il suo partito, l’islamico Giustizia e Sviluppo, per non avere fatto abbastanza contro la corruzione e l’aumento del costo della vita>> racconta Afrik.
Nel Marocco di re Mohammed VI la stampa araba non allineata e i blog non smettono di contestare le blande riforme della monarchia. Quella costituzionale promessa dal re non è sufficiente o, quantomeno, va tenuta sotto controllo, dicono. La libertà d’espressione, ad esempio, è ancora scarsa in Marocco.

Emarrakech (sito maghrebino in lingua francese) racconta la storia di un 22enne arrestato per aver pubblicato su Facebook caricature del profeta Maometto con sembianze animalesche. Altro caso più noto è quello del giornalista e vignettista Khalid Gueddar, arrestato per aver <<più volte disegnato caricature dei membri della famiglia reale e dello stesso Mohammed VI suscitando il duro risentimento del Palazzo>>, scrive il blog Rumoridalmediterraneo.

Già condannato a tre anni di carcere per le sue vignette nel 2010, Gueddar rischia di veder revocata la libertà condizionale.
Non va certo meglio in Giordania, considerata dall’Europa tra le monarchie più progredite forse per via dell’occidentalissima regina Rania. Poco prima che scoppiassero le Primavere arabe, Rania era acclamata dai mensili femminili più quotati. Vanity Fair le aveva fatto spazio nell’olimpo delle vip fashion. Glamour l’aveva eletta donna dell’anno 2010 e Forbes la piazzava tra le più potenti. Finché il giornale on line Slate la mise tra le Marie Antoniette del Medio Oriente, assieme ad Asma al-Assad di Siria (alla quale Vogue aveva dedicato un profilo esaltante solo poco tempo prima). Cecilia Attias dalle colonne dell’Huffington Post scrive alla first lady siriana: <<Signora al-Assad, per conto dei suoi figli e del diritto che tutti hanno d’essere ascoltati, lei deve parlare, lei deve prendere posizione!>>.

Ma le first lady d’Oriente sembrano mute. Perfino quelle i cui regimi sono meno compromessi di quello siriano. Di Rania è stato scritto: <<Rania Abdallah, alla nascita Rania Al Yassin, incarna tutte le contraddizioni del Paese del quale è regina. E altre ancora: all’estero è molto popolare e la si considera una delle donne più influenti al mondo, ma certamente non in Giordania>>. In effetti il malcontento giordano non è stato mai percepito come tale in Europa o è stato còlto molto poco.

Eppure lì la protesta prosegue. Nel suo Jordan: spring or not to spring? il sito di Al Jazeera scrive che il movimento di rivolta possiede caratteristiche che altri non hanno: <<La dissidenza è decentralizzata per sfuggire al controllo politico di Amman; le tribù ingaggiano una lotta a favore delle riforme; il re e la regina hanno smesso di essere inviolabili>>. Più interessante ancora (le rivolte arrivano fin nel cuore dell’Africa) è il caso del Sudan, dove i giovani si stanno ribellando alle misure di austerità di Bashir: partita dal campo femminile dell’Università di Khartoum il 16 giugno scorso, la rivolta si è diffusa in seguito all’aumento del prezzo dei carburanti. Il regime risponde con ondate di arresti e con l’uso della forza. The Egyptian Gazette precisa che <<il governo di Khartoum insiste nel proseguire con i suoi piani di austerità nonostante l’opposizione pubblica. Il ministro delle finanze ha fatto sapere che non taglierà le accise sui carburanti>>.

Qualcuno da noi si domanda se non sia il caso di chiamare Primavere (nel senso di rinascite) queste ribellioni riformiste, più che le rivoluzioni risolte in una violenta deposizione del dittatore. D’altra parte non è detto che la metafora delle stagioni sia riuscitissima. Hivos, no profit olandese, ha redatto un report dal titolo This is not a spring, this is a revolution, a proposito di Egitto, Tunisia e Libia. <<La nozione di Primavera è superficiale ed indica un fenomeno passivo. Si tratta di un concetto fuorviante che si riferisce ad un breve momento di transizione che rapidamente cede il passo ad una stagione successiva>>.

A proposito delle rivolte, la cui portata non era stata né còlta nell’immediato né tantomeno anticipata dall’Occidente, OsservatorioIraq scrive: <<Ci sono due ragioni concatenate per cui l’Occidente non è stato in grado di prevedere quello che poi si è manifestato: si è sopravvalutato lo Stato arabo e la sua capacità di riconfigurare le dinamiche stato-società in suo favore, e si è sottovalutata la società civile e la sua capacità di confrontarsi con la cultura della paura tipica di ogni regime.

Oltretutto si sono trascurati anche gli elementi più importanti: la sempre maggior istruzione della popolazione e la nuova consapevolezza politica degli arabi>>.
Oggi, a distanza di mesi e mesi dal cambio dei regimi e subito dopo le elezioni democratiche che si sono tenute un po’ in tutti i Paesi che hanno abbattuto le dittature, l’Occidente, anziché enfatizzare il fattore di novità e di grande trasformazione che la competizione elettorale contiene in sé (organizzazione dei partiti, campagne elettorali, partecipazione popolare, voto, dibattiti, libertà d’espressione), compie un altro errore di valutazione. Negativizza la portata dei risultati elettorali vedendo nella vittoria dei partiti islamici il fallimento della spinta rivoluzionaria dei popoli arabi. Ancora una volta si interpreta la Storia con categorie eurocentriche. La rivoluzione, checchè ne dicano gli analisti politici occidentali, secondo i media arabi non ha affatto ceduto il passo all’inverno della restaurazione islamica: <<sta semplicemente rodando se stessa>>.

sabato 1 settembre 2012

Angola: tra diamanti e discariche

(di Ilaria De Bonis)

I seggi si sono aperti ieri alle 7.00 del mattino, ora locale. Ma non c’era grande ressa alle urne: l’Angola di Dos Santos vota in questi giorni per eleggere il nuovo Parlamento e indirettamente il suo nuovo Presidente. Con pochi margini di dubbio il nuovo capo di Stato sarà quello attuale, in carica da 33 anni: Josè Eduardo Dos Santos. Presidente del Paese dei diamanti e del petrolio uscito nel 2002 da una guerra civile trentennale,  è il leader dell’Mpla (Movimento per la Liberazione dell’Angola).
Rivale storico dell'’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita), se  vincerà questa scommessa elettorale (basterà che il suo partito raggiunga il maggior numero di seggi in Parlamento perché lui venga automaticamente rieletto) Dos Santos ‘regnerà’ per cinque anni ancora.  
L’Unita ha denunciato irregolarità nella composizione delle liste e nelle candidature, ma a determinare l’elezione del parlamento, suggeriscono fonti dell’agenzia Misna, rischiano di essere soprattutto il monopolio del governo su radio e tv e l’uso improprio delle risorse finanziarie garantite dai giacimenti petroliferi più ricchi dell’Africa australe. <<L’Mpla vincerà ancora, anche se è possibile non raggiunga l’81% del 2008>>, ha riferito padre Beniamino Zanni, missionario della congregazione di Don Calabria che vive a Huambo. In Angola le contraddizioni sono tante e tutte fanno capo al paradosso economico: il paese tra i più ricchi dell’Africa australe, con un Pil in crescita vertiginosa (circa l’8% l’anno) ed inesauribili giacimenti di petrolio e diamanti rivenduti sulle piazze di Anversa, è anche quello che presenta tra i più bassi Indici di Sviluppo Umano. (era al 148esimo posto su 187 nel 2010).

Mentre al centro della capitale Luanda i grattacieli svettano sul lungomare de o pensador, nelle periferie, come quella di Lixeira, distretto di Sambizanga, ancora si vive con meno di due dollari al giorno e 300mila persone dormono dentro baracche di fango e lamiera.  Ai margini del mercato Roque Santeiro riciclano immondizia. Muoiono in media di malaria a 52 anni.  Ogni donna ha cinque figli e ogni figlio rischia di non arrivare a cinque anni di vita. Al centro della città però nasce 'Comandante Gika': 345 mq di negozi, uffici, centri commerciali, parcheggi e torri-grattacielo. A riferire del progetto era stato circa un anno e mezzo fa, il gruppo italiano Kerakoll, di Sassuolo. Produttore mondiale di materiali ecocompatibili, che partecipa al <<più importante progetto immobiliare>> dell'Africa Sub-Sahariana, così recitava il comunicato. 

 
Come hanno sottolineato oggi i vescovi in un messaggio diffuso alle vigilia del voto, i problemi fondamentali rimangono la povertà e le ingiustizie sociali: i petroldollari hanno finanziato la ricostruzione del lungomare di Luanda, una meraviglia di aree pedonali, parchi giochi e campi sportivi inaugurata da Dos Santos giusto in tempo per le elezioni. Il business cinese campeggia nella capitale, ma in periferia, dove i riflettori non arrivano, si continua a morire.   

venerdì 13 luglio 2012

Assedio urbanistico alla città santa


  (Ilaria De Bonis dal mensile Jesus)


Non c’è ressa oggi all’ingresso dell’Haram al Sharif, in Città Vecchia. Sono le dodici e non è tempo di visite per i turisti. I fedeli entrano alla spicciolata. Piove e senza sole la maestosa cupola d’oro della Moschea di Omar pare splendere meno. Shibli e Sultan, i due uomini della security israeliana, si rilassano alle transenne. Scherzano con Ahmad Masood, il guardiano della spianata. Shibli e Sultan sono arabi: il loro compito (nel corpo della polizia di Israele) è quello di assicurare che non scoppino disordini in Città Vecchia. E nel caso, quello di usare le armi, che tengono ben in vista sopra i loro giubbotti antiproiettile. Shibli ha vent’anni, è un beduino di Israele e viene da Haifa.

Sultan è arabo palestinese e vive a Gerusalemme Est. «Gli scontri con gli ebrei avvengono eccome qui», racconta Ahmad il guardiano delle moschee. «I coloni ebraici entrano nei giardini, spesso per sfregio. Non oggi, perché è shabbat. Entrano e disturbano la nostra preghiera. Il Corano dice che questo è il nostro luogo sacro non il loro».

In assoluto il più sensibile dei siti religiosi di Al Quds («la santa», Gerusalemme in arabo), dentro il quadrilatero protetto dalle mura, la spianata ospita la Moschea di Omar dai mosaici azzurri e l’antica Al-Aqsa. Lo stesso sito coincide pericolosamente con il Muro del Pianto, sacro luogo di preghiera per gli ebrei su quello che chiamano Monte del Tempio. Infine, i cristiani guardano al monte come al luogo del Vangelo per i riferimenti alla vita di Gesù nel tempio.

Dentro le mura di Solimano tra odori di spezie e incenso i vicoli s’intersecano: Via dolorosa, Bab Hutta e El Wad. Santo Sepolcro, Ecce Homo e Moschea Rossa. Le processioni di fedeli si sfiorano senza intralcio. Ogni gruppo segue una propria traiettoria. Quella degli ultraortodossi sefarditi e degli haredim somiglia a una corsa a ostacoli. A passo spedito si dirigono ogni venerdì pomeriggio al Muro Occidentale. Qui gli attriti, le tensioni provocate ad arte e gli scontri fisici tra musulmani e polizia, ebrei ortodossi e arabi «sono all’ordine del giorno», spiega Yusuf Natsheh del Waqf, fondazione islamica che tutela i beni culturali e patrimoniali.
Quando si avvicinano le grandi festività religiose ebraiche, come il Kippur o il Sukkot, e i controlli dei militari si fanno più serrati, allora le provocazioni verbali diventano bombe. Notizie come quella della costruzione di un tunnel sotterraneo che minerebbe alle fondamenta la Moschea di Al-Aqsa, o del controverso progetto del centro Wiesenthal per la costruzione di un Museo della Tolleranza proprio sulle ceneri di un antico cimitero musulmano a Mamilla, provocano la reazione risentita degli arabi palestinesi che si asserragliano ancor di più nei luoghi di preghiera come in una fortezza.

«Siamo sotto occupazione militare israeliana e questo dato si ripercuote a maggior ragione sui luoghi sacri dentro e fuori la Città Vecchia», spiega Natsheh, «il paradosso è che questi siti sensibili dovrebbero essere ancora più tutelati e rispettati dalla forza occupante, ma di fatto così non è». Capita invece, talvolta, che siano proprio i rabbini ultraortodossi (gli haredim che ritengono ancora lontana la venuta del Messia e dunque prematuro un ritorno in massa degli ebrei in Israele) a mettere in guardia i propri fedeli circa le provocazioni che generano violenza alterando, dunque, la purezza dei luoghi sacri. «Secondo l’halacha’ (la legge religiosa ebraica) agli ebrei è proibito recarsi al Monte del Tempio per due ragioni: per via della sua santità e per le ripercussioni politiche che la loro presenza può avere in quel luogo», ha dichiarato di recente l’anzianissimo rabbino capo lituano Sholom Elyashiv della comunità aschenazita di Mea Shearim.

La comunità internazionale, rappresentata dagli Stati Uniti e dall’Europa «vuole veramente un doppio stato con una Gerusalemme capitale per due nazioni. E vuole anche una città aperta con garanzia internazionale a statuto particolare. Ma questo punto deve essere discusso assieme agli altri, nel pacchetto del negoziato di pace: insediamenti, ritorno dei profughi, confini del futuro stato e status quo di Gerusalemme. Non si può risolvere uno senza l’altro: formano un mosaico», dichiara monsignor William Shomali, vescovo ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme.


Perché «Gerusalemme non è una città qualsiasi», aggiunge, «e questa sua particolarità religiosa dovrebbe essere tradotta in misure concrete da parte di Israele: dare uguaglianza di diritti e di doveri alle tre religioni senza guardare al numero di ciascuna rappresentanza. I cristiani sono diecimila a Gerusalemme ma non vuol dire che essi debbano godere solo del 2 per cento dei diritti rispetto agli altri. Gerusalemme è sacra per tutte le fedi allo stesso modo».


Il messaggio dei vescovi, veicolato tramite il documento finale presentato a Roma dal Sinodo per il Medio Oriente parla chiaro: «Non è permesso ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento che giustifichi le ingiustizie», si legge, «al contrario il ricorso alla religione deve portare ognuno a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e dei suoi comandamenti». Dal canto loro i padri francescani della Custodia di Terra Santa in diverse occasioni hanno evidenziato aspetti legati al particolare status degli arabi cristiani penalizzati su entrambi i fronti. «Il vero problema per un cristiano», ha dichiarato in una recente intervista il Custode padre Pierbattista Pizzaballa, «è quello di essere cittadino israeliano ma non ebreo, di essere arabo ma non musulmano».


Si tratta dunque «di una minoranza dentro una minoranza». Non ci sono, dal punto di vista della legge, delle vere discriminazioni, «ci sono però de facto delle disuguaglianze di trattamento». Il mondo religioso ebraico è a sua volta estremamente variegato in Israele, tanto che il rabbino capo dei sefarditi, Shlomo Moshe Amar, ha sentito il bisogno di dichiarare recentemente a una radio israeliana: «Il maggior pericolo che affrontiamo è dato da noi stessi non dal terrorismo». Perché il «vero fondamento del popolo ebraico è l’unità. Ma noi diamo priorità agli aspetti materiali del mondo e non all’unità del nostro popolo».


Le posizioni all’interno della compagine eterogenea del mondo religioso ebraico, in effetti, vanno da quella più moderata dei rappresentanti del gran rabbinato di Israele (rabbino Yona Metzger, aschenazita e il rabbino Shlomo Moshe Amar sefardita), a quella dei rabbini estremisti alla guida della cosiddetta "ortodossia moderna", che abbracciano posizioni nazionaliste (sionismo religioso) spesso di estrema destra e si identificano con partiti come lo Shas o il Kach, dalle pericolose derive messianiche. Sfociate di recente nell’arresto di uno dei rabbini della colonia di Yitzhar in Cisgiordania. Era autore del libro scandalo Torat Hamelekh. Ossia, quando è lecito uccidere i non ebrei: «C’è una giustificazione nell’uccidere i bambini se risulta chiaro che in futuro essi possano danneggiarci», si legge nel testo.


Di sicuro interesse, anche se ancora marginale in Israele, è la corrente dell’ebraismo riformato, che all’Hebrew Union College di Gerusalemme ha tra i suoi esponenti di punta una donna: il rabbino Naamah Kelman. Estremamente aperti e tolleranti, gli ebrei della riforma guardano con preoccupazione alle posizioni estreme di un universo ultraortodosso sempre più razzista e sessista.
Le donne ebree religiose a Gerusalemme inoltre stanno scardinando un mondo fatto di regole declinate solo al maschile e a fatica cercano di imporsi nel panorama ebraico israeliano: le "Donne del Muro", in particolare la leader femminista Anat Hoffman che al Muro del Pianto indossa i paramenti religiosi maschili e pretende di pregare anche negli spazi riservati ai soli uomini, sono un’espressione vivace di questa rivoluzione al femminile.


Aprirsi finalmente alle tre fedi e appartenere nella stessa misura a cristiani, ebrei e musulmani non impedirebbe affatto a Gerusalemme di essere materialmente spartita. Anzi. Secondo la maggior parte degli osservatori internazionali la divisione è il presupposto per una pace duratura. «Una spartizione giurisdizionale e amministrativa renderebbe giustizia ad entrambi i popoli», afferma Meir Margalit consigliere comunale del Meretz, il partito di sinistra. Al contrario di quanto fa il Muro di separazione costruito da Israele, che s’incunea nei quartieri Est di Gerusalemme e in Cisgiordania spezzando in due la continuità di quartieri, terre, case e famiglie.


Perfino i politici della destra, a partire dal sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, sanno che prima o poi la città andrà divisa. E in parte restituita. La comunità internazionale preme per questo. Va divisa perché un giorno dovrà essere, che piaccia o meno, capitale di due stati autonomi. «Ma più tempo passa più la parte destinata agli arabi si assottiglia e Barkat ne è consapevole», precisa Margalit. Anzi, è lui l’artefice: «consente ai settler di proseguire nell’opera di colonizzazione dei quartieri palestinesi».


E che il sindaco di Israele assecondi l’opera di costruzione degli insediamenti illegali dentro i quartieri arabi "storici" di Gerusalemme Est, lo conferma anche il demografo di Gerusalemme, Sergio Della Pergola, docente universitario alla Hebrew University. «Barkat è responsabile di questa politica», dice, «sono stato il demografo del piano regolatore di Gerusalemme e dico che è un grave errore costruire una casa di un certo tipo culturale nel mezzo di una zona identificata con un altro tipo culturale. È un errore perché sa di provocazione». Il riferimento è a intromissioni di coloni nazionalisti dentro Silwan, ad esempio, nel sito archeologico della Città di Davide. Quella che Della Pergola chiama «provocazione» altri la chiamano «politica dell’apartheid» o, ancora, «giudaizzazione» di Gerusalemme, per dirla con le parole dell’attivista palestinese Omar Barghouti. Perché se è vero che più tempo passa più i muri invisibili crescono è vero anche che più tempo passa più i numeri si capovolgono: gli ebrei di Gerusalemme erano il 74 per cento della popolazione totale nel 1967, sono il 65 per cento oggi. Gli arabi palestinesi sono passati, nello stesso lasso di tempo, dal 26 per cento al 36 per cento. È per questo che, secondo i pacifisti palestinesi, la «giudaizzazione» di Gerusalemme è stata accelerata.
Il trenino leggero che collegherà la colonia ebraica di Pisgat Zeev alla Porta di Giaffa in Città Vecchia, ad esempio, portando i suoi "residenti" direttamente in centro, è una delle prove più evidenti del tentativo di normalizzare uno status quo. Israele considera oramai a tutti gli effetti parte integrante di Gerusalemme quegli insediamenti ebraici che le Nazioni Unite ancora chiamano illegali (Gilo, Ramot, Neve Yakov, Pisgat Zeev). E su questi ben poco potranno gli interventi della comunità internazionale e degli esponenti religiosi. Il discorso è invece potenzialmente aperto su altre zone arabe che ancora hanno una chance di restare tali.


«Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa», scrivono i vescovi del Sinodo del Medio Oriente, «e siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto». La prima zona nel mirino della destra israeliana in questo senso è Silwan. Seguono Ras al-Amud, Sheikh Jarrah e Monte degli Ulivi. In questi quartieri la presenza dei coloni ebraici – di norma appartenenti ai gruppi nazional-religiosi – mina qualsiasi dialogo di pace. Imponenti residenze costruite ad hoc per i coloni (che anche Israele definisce illegali) sono sorte nella parte più sacra di Gerusalemme Est, tra Ras al-Amud, appena fuori le mura della Città Vecchia, e il Monte degli Ulivi. Come Maale Hazeitim, nei pressi del Getsemani, che presto verrà ulteriormente ampliata con la costruzione di un secondo insediamento Maale David.


A Sheikh Jarrah la politica di sfratto e demolizione di case arabe ha lasciato senza un tetto decine di famiglie. Ma l’allarme maggiore riguarda Silwan: la demolizione sistematica di case arabe ha alzato il livello di tensione, la presenza dei vigilantes privati armati a difesa delle case di coloni ha provocato episodi spesso mortali. Sul Monte degli Ulivi invece accadono storie paradossali come questa: la famiglia di Mahmoud Abu-al hawa, araba palestinese cristiana, vive in un edificio occupato per metà da un settler ebraico che ha piantato un’enorme bandiera bianca e azzurra proprio sul tetto. Quell’appartamento all’ultimo piano è stato comprato nel 2005 da Irving Moskovitz, noto magnate ebreo americano che finanzia le colonie di Gerusalemme Est.

Mahmoud non sapeva che dentro ci sarebbe finito un colono estremista. Suo fratello l’aveva infatti venduto ad un arabo. Poi un giorno al posto del palestinese cui era stata venduta la casa si sono presentati alcuni ebrei israeliani, bagagli alla mano, e si sono trasferiti lì. La famiglia Abu-al hawa da quel giorno vive con il terrore che gli portino via anche l’altro pezzo di casa. Dopo due mesi da quell’incauta vendita il fratello di Mahmoud è stato ammazzato. «Adesso vengono a chiedermi di poter comprare anche l’altra parte della casa. Vengono, bussano, si siedono. Una volta avevano pure i contanti più di mezzo milione di dollari! E volevano casa mia», sorride mentre racconta. «Ma non gliela darò mai.
È la casa dove sono nato e dove mia madre ha vissuto. Eppure se accettassi sarei ricco. Potrei rifarmi una vita in America e i miei figli studierebbero lì. Ma no, io non gliela darò mai questa casa».

giovedì 5 luglio 2012

Israele, democrazia a pezzi


(Di Ilaria De Bonis)
 
Salvare la forma per nascondere la sostanza: il rimpatrio dei rifugiati avverrà con gradualità, senza ricorrere all’uso della forza e in maniera ‘civile’.

Perché <<la tradizione ebraica vuole che gli stranieri siano trattati umanamente e dignitosamente>>. Così assicurava il premier Benjamin Netanyahu il giorno del primo rimpatrio di 120 rifugiati dal Sud Sudan su un volo di sola andata Tel Aviv-Juba.
Sta di fatto che più o meno coercitivamente 3mila rifugiati sud-sudanesi verranno rispediti a casa loro da qui a poco. La politica dei rimpatri ha raggiunto dimensioni preoccupanti in Israele. Il ministro dell’Interno ha perfino posposto la deadline, consentendo l’estensione del premio in denaro a chi lascerà il suolo israeliano ‘sua sponte’: 1.300 dollari a ciascun adulto e 500 dollari ai minori. La stampa israeliana, e non solo quella progressista, ricorda che Netanyahu ha definito i richiedenti asilo africani come ‘una minaccia’ al carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele (<<L'obiettivo prioritario dei nostri sforzi è quello di mantenere il carattere ebraico dello stato di Israele, anche in futuro>>). E stando alle cronache dal 2009 ad oggi su 45 milioni di migranti che hanno tentato di entrare clandestinamente nel Paese attraverso l’Egitto, soltanto tre hanno ottenuto lo status di richiedenti asilo.

A maggio del 2012 sono entrati in Israele 2mila africani, 8mila e 600 dall'inizio dell'anno. Le novità: il carcere (un enorme ‘centro d’accoglienza’ in pieno deserto del Negev) fino a tre anni senza processo a chi tenterà di entrare clandestinamente, e un muro di 240 km lungo la frontiera con l'Egitto. Che sta succedendo in Israele e che ne pensano intellettuali, società civile, attivisti e gente comune? <<Nessuno può dire come sarà questo paese tra dieci anni>>, scrive Gideon Levy sul quotidiano Haaretz. E nessuno può saperlo perché, argomenta Levy, il problema vero di Israele non è tanto la sua sopravvivenza fisica (nonostante la questione di un’imminente minaccia nucleare iraniana e lo spettro costante del terrorismo arabo-palestinese), quanto la sua ‘tenuta’ come Stato democratico. <<Non c’è nessun altro Paese al mondo come Israele – prosegue Levy - Gli Stati Uniti non sanno esattamente che proporzioni  raggiungerà la loro disoccupazione interna tra dieci anni e chi potrà godere di un’assicurazione sanitaria; l’Europa dal canto suo si chiede se l’euro esisterà ancora. Ma in Israele le questioni esistenziali sono incommensurabilmente più profonde e di più ampio raggio, eppure nessuno le affronta>>.


In sostanza - è l’accusa che viene da gran parte del mondo intellettuale ebraico e anche dal sionismo di sinistra - è una democrazia che limita se stessa pur di impedire la presa di coscienza collettiva su realtà troppo a lungo sottaciute: l’occupazione militare, uno stato di tensione permanente, la xenofobia. Lo spettro della minaccia interna e di quella esterna (rappresentata dai clandestini, i rifugiati e i richiedenti asilo) reggono sempre meno. Ecco perché il Parlamento serra le fila e il governo della destra di Netanyahu vara leggi liberticide. <<Nessuno ferma Israele dal diventare sempre più un pariah>>, prosegue Levy. Eppure qualcosa sta cambiando dal di dentro: la gente comune inizia a capire quanto la spesa pubblica e le energie collettive di un intero popolo siano state impiegate male. Dirottate per anni sulla militarizzazione a discapito della costruzione di ponti di pace e di dialogo tra persone e religioni. Vie percorribili in vista di una convivenza futura per ‘due popoli e due Stati’. Ora che la crisi economica morde anche a Tel Aviv, la gente comune non si lascia incantare e scende in piazza per protesta. Certo, la protesta non è sempre coerente, fa un passo avanti e due indietro. Ma qualcosa si è mosso non più di un anno fa. Non è piaciuta ai ministri la più grande manifestazione mai vista (quella dell’estate scorsa) per reclamare lavoro, casa, diritti umani, giustizia sociale, migliore uso della spesa pubblica.Tra gli indignati israeliani non c’erano solo i giovani universitari con la kefiah al collo.

C’erano famiglie intere, nonne e bambini. Che non godranno di un gran futuro a giudicare dalle premesse. <<Israele è un Paese sotto assedio: ma l’assedio è interno. E’ quello di un popolo al quale sono stati chiusi gli occhi per troppo tempo e che adesso sente tutto il peso della mistificazione>>, racconta un giovane studente di Tel Aviv che durante le grandi manifestazioni aveva montato una tenda a Boulevard Rotschild. Il Jerusalem report (lo stesso editore del Jerusalem Post, dunque su posizioni conservatrici), ha dedicato un intero numero al ‘rischio democrazia’, titolando; ‘democracy in Turmoil’ e spiegando le ultime novità legislative messe in campo da alcuni deputati per limitare l’erogazione di fondi stranieri alle Ong israeliane. La mossa tende a dimezzare il numero delle organizzazioni (sempre più consistenti) che si battono per i diritti umani. Una reazione del Parlamento di fronte all’enorme portata della presa di coscienza collettiva.


<<Queste due leggi fanno parte di uno sforzo ben più grande per mettere in difficoltà le organizzazioni che promuovono un cambiamento sociale la cui agenda o le cui priorità non sono condivise da vari parlamentari e dai ministri>>, ha dichiarato Hagai El-Ad, direttore dell’Association for Civil Rights in Israel (ACRI).
<<E questo – prosegue El-Ad - è parte di una strategia che intende oscurare le linee di demarcazione tra ‘delegittimazione dello Stato’ e ogni altra forma di critica a specifiche politiche di governo>>. In sostanza, sebbene questi attivisti non vogliano affatto delegittimare lo Stato, sono considerati dallo Stato stesso una minaccia alla sua incolumità. Questo tipo di opposizione sempre più allargata, è parte del cosiddetto ‘sionismo di sinistra’, non è neanche paragonabile a quelle associazioni israeliane che vedono principalmente Israele come forza occupante e ne delegittimizzano in qualche modo la sovranità.
Inoltre adesso è la gente comune, non politicizzata e di religione ebraica, orgogliosa d’essere israeliana, a prender posizione.
Emblematica la storia di Ram Cohen, preside di un liceo artistico di Tel Aviv, che ha rischiato di venir licenziato per il solo fatto d'aver parlato ai suoi ragazzi della realtà dell'occupazione militare nei Territori Palestinesi.


<<Non sono contro il mio Paese, non sono un sovversivo. Questo ho cercato di far capire alla Knesset. Io voglio stare e lavorare in Israele>>, si era difeso Cohen.
In ogni modo i dati oggettivi, dicono diversi osservatori internazionali, sono preoccupanti: il 2011 si è aperto con una carrellata di leggi antidemocratiche. La prima (Nakba bill) sanziona le organizzazioni o i gruppi che negano il carattere 'ebraico e democratico' dello stato d'Israele ed impedisce agli arabi israeliani di commemorare come vogliono pubblicamente il giorno della Nakba (quello che per i palestinesi è la 'catastrofe' e per gli ebrei israeliani il giorno della liberazione). La seconda legge consente alle comunità composte da meno di 400 famiglie di nominare delle 'commissioni per l'ammissibilità'. Si tratta di una giuria che si esprimerà con un sì o con un no sull'eventuale ingresso di nuovi abitanti nei piccoli villaggi del Negev e della Galilea.

La terza prevede la punizione dei cittadini o dei gruppi israeliani che facciano ricorso al boicottaggio economico, culturale o accademico dello Stato ebraico. La campagna di boicottaggio internazionale (BDS), sostenuta da una parte minoritaria della società civile israeliana, stava infatti funzionando, secondo il giornalista Uri Avnery. Perché lì dove non arriva il diritto internazionale arrivano gli attivisti, i giornalisti, gli artisti, gli studenti. Il provvedimento in discussione attacca questo potere, dice l’opposizione. Non impedisce soltanto il boicottaggio dei prodotti agricoli delle colonie, (avviato dall’organizzazione Gush Shalom 13 anni fa) ma anche quello culturale E infine: è di un mese fa la decisione della Corte Suprema di negare la cittadinanza e la residenza a quei palestinesi sotto occupazione sposati con arabi israeliani. <<Una decisione che viola tutte le norme del ricongiungimento familiare>>, scrive l’agenzia sul Medio Oriente Nena-news.
 (Di Ilaria De Bonis, da Popoli e Missione di luglio-agosto 2012)