giovedì 5 luglio 2012

Israele, democrazia a pezzi


(Di Ilaria De Bonis)
 
Salvare la forma per nascondere la sostanza: il rimpatrio dei rifugiati avverrà con gradualità, senza ricorrere all’uso della forza e in maniera ‘civile’.

Perché <<la tradizione ebraica vuole che gli stranieri siano trattati umanamente e dignitosamente>>. Così assicurava il premier Benjamin Netanyahu il giorno del primo rimpatrio di 120 rifugiati dal Sud Sudan su un volo di sola andata Tel Aviv-Juba.
Sta di fatto che più o meno coercitivamente 3mila rifugiati sud-sudanesi verranno rispediti a casa loro da qui a poco. La politica dei rimpatri ha raggiunto dimensioni preoccupanti in Israele. Il ministro dell’Interno ha perfino posposto la deadline, consentendo l’estensione del premio in denaro a chi lascerà il suolo israeliano ‘sua sponte’: 1.300 dollari a ciascun adulto e 500 dollari ai minori. La stampa israeliana, e non solo quella progressista, ricorda che Netanyahu ha definito i richiedenti asilo africani come ‘una minaccia’ al carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele (<<L'obiettivo prioritario dei nostri sforzi è quello di mantenere il carattere ebraico dello stato di Israele, anche in futuro>>). E stando alle cronache dal 2009 ad oggi su 45 milioni di migranti che hanno tentato di entrare clandestinamente nel Paese attraverso l’Egitto, soltanto tre hanno ottenuto lo status di richiedenti asilo.

A maggio del 2012 sono entrati in Israele 2mila africani, 8mila e 600 dall'inizio dell'anno. Le novità: il carcere (un enorme ‘centro d’accoglienza’ in pieno deserto del Negev) fino a tre anni senza processo a chi tenterà di entrare clandestinamente, e un muro di 240 km lungo la frontiera con l'Egitto. Che sta succedendo in Israele e che ne pensano intellettuali, società civile, attivisti e gente comune? <<Nessuno può dire come sarà questo paese tra dieci anni>>, scrive Gideon Levy sul quotidiano Haaretz. E nessuno può saperlo perché, argomenta Levy, il problema vero di Israele non è tanto la sua sopravvivenza fisica (nonostante la questione di un’imminente minaccia nucleare iraniana e lo spettro costante del terrorismo arabo-palestinese), quanto la sua ‘tenuta’ come Stato democratico. <<Non c’è nessun altro Paese al mondo come Israele – prosegue Levy - Gli Stati Uniti non sanno esattamente che proporzioni  raggiungerà la loro disoccupazione interna tra dieci anni e chi potrà godere di un’assicurazione sanitaria; l’Europa dal canto suo si chiede se l’euro esisterà ancora. Ma in Israele le questioni esistenziali sono incommensurabilmente più profonde e di più ampio raggio, eppure nessuno le affronta>>.


In sostanza - è l’accusa che viene da gran parte del mondo intellettuale ebraico e anche dal sionismo di sinistra - è una democrazia che limita se stessa pur di impedire la presa di coscienza collettiva su realtà troppo a lungo sottaciute: l’occupazione militare, uno stato di tensione permanente, la xenofobia. Lo spettro della minaccia interna e di quella esterna (rappresentata dai clandestini, i rifugiati e i richiedenti asilo) reggono sempre meno. Ecco perché il Parlamento serra le fila e il governo della destra di Netanyahu vara leggi liberticide. <<Nessuno ferma Israele dal diventare sempre più un pariah>>, prosegue Levy. Eppure qualcosa sta cambiando dal di dentro: la gente comune inizia a capire quanto la spesa pubblica e le energie collettive di un intero popolo siano state impiegate male. Dirottate per anni sulla militarizzazione a discapito della costruzione di ponti di pace e di dialogo tra persone e religioni. Vie percorribili in vista di una convivenza futura per ‘due popoli e due Stati’. Ora che la crisi economica morde anche a Tel Aviv, la gente comune non si lascia incantare e scende in piazza per protesta. Certo, la protesta non è sempre coerente, fa un passo avanti e due indietro. Ma qualcosa si è mosso non più di un anno fa. Non è piaciuta ai ministri la più grande manifestazione mai vista (quella dell’estate scorsa) per reclamare lavoro, casa, diritti umani, giustizia sociale, migliore uso della spesa pubblica.Tra gli indignati israeliani non c’erano solo i giovani universitari con la kefiah al collo.

C’erano famiglie intere, nonne e bambini. Che non godranno di un gran futuro a giudicare dalle premesse. <<Israele è un Paese sotto assedio: ma l’assedio è interno. E’ quello di un popolo al quale sono stati chiusi gli occhi per troppo tempo e che adesso sente tutto il peso della mistificazione>>, racconta un giovane studente di Tel Aviv che durante le grandi manifestazioni aveva montato una tenda a Boulevard Rotschild. Il Jerusalem report (lo stesso editore del Jerusalem Post, dunque su posizioni conservatrici), ha dedicato un intero numero al ‘rischio democrazia’, titolando; ‘democracy in Turmoil’ e spiegando le ultime novità legislative messe in campo da alcuni deputati per limitare l’erogazione di fondi stranieri alle Ong israeliane. La mossa tende a dimezzare il numero delle organizzazioni (sempre più consistenti) che si battono per i diritti umani. Una reazione del Parlamento di fronte all’enorme portata della presa di coscienza collettiva.


<<Queste due leggi fanno parte di uno sforzo ben più grande per mettere in difficoltà le organizzazioni che promuovono un cambiamento sociale la cui agenda o le cui priorità non sono condivise da vari parlamentari e dai ministri>>, ha dichiarato Hagai El-Ad, direttore dell’Association for Civil Rights in Israel (ACRI).
<<E questo – prosegue El-Ad - è parte di una strategia che intende oscurare le linee di demarcazione tra ‘delegittimazione dello Stato’ e ogni altra forma di critica a specifiche politiche di governo>>. In sostanza, sebbene questi attivisti non vogliano affatto delegittimare lo Stato, sono considerati dallo Stato stesso una minaccia alla sua incolumità. Questo tipo di opposizione sempre più allargata, è parte del cosiddetto ‘sionismo di sinistra’, non è neanche paragonabile a quelle associazioni israeliane che vedono principalmente Israele come forza occupante e ne delegittimizzano in qualche modo la sovranità.
Inoltre adesso è la gente comune, non politicizzata e di religione ebraica, orgogliosa d’essere israeliana, a prender posizione.
Emblematica la storia di Ram Cohen, preside di un liceo artistico di Tel Aviv, che ha rischiato di venir licenziato per il solo fatto d'aver parlato ai suoi ragazzi della realtà dell'occupazione militare nei Territori Palestinesi.


<<Non sono contro il mio Paese, non sono un sovversivo. Questo ho cercato di far capire alla Knesset. Io voglio stare e lavorare in Israele>>, si era difeso Cohen.
In ogni modo i dati oggettivi, dicono diversi osservatori internazionali, sono preoccupanti: il 2011 si è aperto con una carrellata di leggi antidemocratiche. La prima (Nakba bill) sanziona le organizzazioni o i gruppi che negano il carattere 'ebraico e democratico' dello stato d'Israele ed impedisce agli arabi israeliani di commemorare come vogliono pubblicamente il giorno della Nakba (quello che per i palestinesi è la 'catastrofe' e per gli ebrei israeliani il giorno della liberazione). La seconda legge consente alle comunità composte da meno di 400 famiglie di nominare delle 'commissioni per l'ammissibilità'. Si tratta di una giuria che si esprimerà con un sì o con un no sull'eventuale ingresso di nuovi abitanti nei piccoli villaggi del Negev e della Galilea.

La terza prevede la punizione dei cittadini o dei gruppi israeliani che facciano ricorso al boicottaggio economico, culturale o accademico dello Stato ebraico. La campagna di boicottaggio internazionale (BDS), sostenuta da una parte minoritaria della società civile israeliana, stava infatti funzionando, secondo il giornalista Uri Avnery. Perché lì dove non arriva il diritto internazionale arrivano gli attivisti, i giornalisti, gli artisti, gli studenti. Il provvedimento in discussione attacca questo potere, dice l’opposizione. Non impedisce soltanto il boicottaggio dei prodotti agricoli delle colonie, (avviato dall’organizzazione Gush Shalom 13 anni fa) ma anche quello culturale E infine: è di un mese fa la decisione della Corte Suprema di negare la cittadinanza e la residenza a quei palestinesi sotto occupazione sposati con arabi israeliani. <<Una decisione che viola tutte le norme del ricongiungimento familiare>>, scrive l’agenzia sul Medio Oriente Nena-news.
 (Di Ilaria De Bonis, da Popoli e Missione di luglio-agosto 2012)

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