Di Ilaria De Bonis
Non meno di 31 persone sono morte e 160 sono rimaste gravemente ferite nel corso di ben 87 incidenti d’auto verificatisi nello Stato di Lagos da gennaio a marzo di quest’anno. A tenere il conto delle vittime delle quattro ruote in questo caso è il Federal Road Safety Corps, una sorta di polizia stradale che si occupa anche di incentivare la sicurezza dei veicoli.
A colpire ancora di più l’attenzione è il bollettino dei morti pasquali: in Sudafrica il Road Traffic Management Corporation il 20 aprile scorso annunciava che 25 persone avevano perso la vita e 34 erano rimaste ferite nel solo weekend di Pasqua. L’ultimo di questi incidenti mortali ha visto tra le vittime un bambino di quattro anni. A livello globale, nel mondo, muoiono ogni giorno circa 3.500 persone, ossia 1,3 milioni l’anno.
Un numero che è rimasto purtroppo invariato dal 2011 al 2013. Il 22% delle vittime della strada sono pedoni, il 5% è rappresentato da ciclisti. E sono i più giovani a rimetterci la pelle: ogni ora nel mondo perdono la vita circa 40 persone sotto i 25 anni, falcidiati dalle gomme delle auto o travolti dai motori delle vetture. Ma la peggiore performance in assoluto, ancora una volta, è quella dei Paesi più poveri, Africa e India in testa: per motivi che vanno dalla scarsità di leggi in materia (o ad una loro mancata applicazione) ad una guida “spericolata” perché poco rispettosa degli altri; dall’uso di vetture usurate o accidentate alla mancanza di strade asfaltate e adeguati segnali stradali. Se l’India detiene il primato del più alto numero di incidenti stradali al mondo (sono 130mila morti l’anno), seguita dalla Cina, al continente africano sono riservati altri tristi record.
L’Africa, dicono le statistiche raccolte nell’ultimo rapporto stilato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), pur possedendo solo il 2% dei veicoli presenti in tutto il globo, contribuisce per ben il 16% agli incidenti mortali. Un contributo decisamente poco edificante per una popolazione che già soffre mille altre calamità: sfortunatamente ogni 100mila persone – si legge nel Global Status Report on Road Safety 2013 - 24 sono africane, 21 appartengono alla regione del Medio Oriente e Nord Africa, 18 sono asiatiche e circa 19 latinoamericane. C’è poi un dato che fa riflettere e che rende ancora meno umano il flagello: coloro che hanno meno responsabilità proprio perché non guidano, i bambini, sono le vittime “privilegiate” dell’incuria.
Costretti a percorrere a piedi le strade più pericolose per andare a scuola o lasciati da soli a districarsi nelle insidie del traffico urbano, nel 2004 circa 950mila bambini sono morti dopo essere stati travolti da un mezzo stradale. Desmond Tutu, arcivescovo emerito di Cape Town, aveva intuito con grande anticipo le proporzioni del dramma: <<Di tanto in tanto nella storia dell’umanità capitano epidemie killer che non vengono riconosciute in tempo – aveva scritto - e dunque si agisce contro di esse solo quando è già troppo tardi>>. La strada può essere uno di questi killer invisibili, paragonabile ad un’epidemia virale, diceva.
L’alleanza globale contro il flagello
La preoccupazione oggi è talmente forte che in vista della Terza Settimana mondiale indetta dalle Nazioni Unite per la Sicurezza stradale che si terrà nel 2015 in Brasile - e ad un anno esatto dalla pubblicazione dell’importante documento cui abbiamo fatto cenno - l’Assemblea generale dell’Onu ha appena varato una risoluzione che ribadisce l’importanza di un continuo monitoraggio e l’essenziale lavoro portato avanti da alcune piattaforme internazionali. La più completa è l’Alleanza globale delle ong per la sicurezza stradale che lavora al raggiungimento degli obiettivi del “decennio d’azione 2011-2020”. L’intento è dimezzare il numero delle vittime e di coloro che rimangono disabili a vita. Questa coalizione di sigle comprende al suo interno ong che si dedicano esclusivamente a migliorare il contesto ambientale, formativo e legislativo che alimenta il sistema di guida. Si legge nella risoluzione dell’Onu del 14 aprile scorso che <<gli Stati membri sono tenuti ad adottare una legislazione che tenga conto dei fattori di rischio, compresa la mancata attenzione verso i segnali stradali, il mancato uso dei caschi per i motociclisti, delle cinture di sicurezza e dei seggiolini per i bambini. Guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di droghe, velocità inappropriata e uso dei telefoni cellulari>>.
Tra le ong che fanno parte dell’Alleanza globale in Kenya ne troviamo ben sette: tra le più attive la Pamoja Road safety initiative, che si occupa di fare formazione presso i più giovani. I volontari tengono corsi e training per i ragazzi delle scuole elementari e medie e momenti di incontro pubblico per parlare di sicurezza stradale e informare sui potenziali pericoli della guida priva di regole. C’è poi la ong Asirt Kenya che ha lo scopo di ridurre i decessi e anche le perdite economiche causate dagli incidenti stradali. Il ramo filantropico dell’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg è partner delle Nazioni Unite nella lotta agli incidenti stradali per salvare vite umane e ridurre l’impatto economico di questo flagello: la fondazione Bloomberg Philanthropy ha stanziato finora 125 milioni di dollari per il programma del Global Road Safety dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
Chiesa, poveri e sicurezza
La Chiesa e le parrocchie locali sono tra gli attori prioritari di questa Alleanza globale: la mancata sicurezza stradale è per lo più il killer dei poveri, dicono in molti. Perché sono le comunità più indigenti, destinate a vivere lungo strade statali o ai margini delle grandi periferie urbane, quelle più soggette alla precarietà di vita. Ed è da qui che si deve ripartire, spiegano i missionari. <<Noi ignoriamo che gli incidenti d’auto siano tanto pericolosi – scriveva l’arcivescovo Desmond Tutu - Quest’epidemia è invisibile nella sua ubiquità: solo quando ci fermiamo a considerare il bilancio quotidiano in ogni quartiere o in ogni città, in ogni Paese o in ogni regione, comprendiamo la vera tragedia. Tremila e 500 persone uccise ogni giorno, migliaia seriamente ferite. Duecento e 60mila bambini trucidati ogni anno e più di un milione in fin di vita senza che nessuno protesti>>. I poveri non hanno mezzi per difendersi, non hanno strumenti e spesso sono vittime sacrificali di un progresso tecnologico che avviene in fretta, senza passare attraverso l’informazione, l’educazione e l’abitudine al rispetto dell’integrità altrui. C’è però un luogo comune che va sfatato: l’idea che la morte per incidenti stradali sia un tributo necessario da pagare al progresso in aree del mondo che vedono aumentare il loro Pil, come l’America Latina.
<<Dobbiamo sfatare il mito che siccome la regione latinoamericana cresce, dal punto di vista economico e il numero dei veicoli è aumentato, allora anche le vittime devono necessariamente aumentare – spiega Veronica Raffo della Banca Mondiale -Questo non è vero. E’ possibile cambiare: l’Argentina e altri Paesi dimostrano che ciò è fattibile>>. Ad esempio partendo dalla creazione di leggi migliori. Tra le cause principali di incidenti d’auto c’è la totale assenza di leggi che impediscano di bere alcolici e poi mettersi alla guida. Solo nove Paesi africani su 44 hanno varato leggi nazionali sulle modalità di assunzione di alcolici e la compatibilità di questi limiti con la guida. Tra le altre cause di morte la totale assenza di caschi per i motociclisti e la disabitudine all’uso delle cinture di sicurezza per gli automobilisti e i loro passeggeri. L’auto diventa così un’arma potenziale, pronta ad uccidere: solo 59 Paesi a livello globale, ossia il 39% della popolazione mondiale (circa 2,67 miliardi di persone), hanno messo a punto un limite di velocità urbana di 50 chilometri orari. Il resto dei Paesi non contempla vincoli e non prevede perciò sanzioni.
L’angelo del Nilo e altre storie
<<Deana è mia figlia. Aveva 17 anni quando la sua vita è stata spezzata. L’incidente avvenne il 9 ottobre 2003 alle dieci e mezza di sera. Deana stava andando con delle amiche ad una festa di compleanno; stavano attraversando le banchine del Nilo a Maadi, al Cairo. Il traffico era caotico e non c’erano semafori né marciapiedi, solo una fila ininterrotta di automobili che andavano veloci, bus e camion. Non c’era modo di attraversare quella strada per un pedone>>. E così venne travolta da un autobus e il padre, che racconta la sua storia, ricorda che l’autista neanche rallentò. Il Cairo è sempre stata una delle città più pericolose per gli alti livelli di traffico cittadino: questa ragazzina di 17 anni ha perso la vita lasciando una famiglia straziata dal dolore. <<Mia figlia amava la vita e amava gli angeli. Nella sua stanza aveva sempre delle piccole immagini o figurine di angeli. Per noi lei è diventata l’angelo del Nilo>>, scrive ancora il padre. <<Mi sento in colpa perché credo che avrei dovuto passare più tempo con lei ma poi penso che anche 24 ore al giorno trascorse insieme non sarebbero bastate>>. David, il padre di Deana, non si è arreso del tutto e col tempo ha deciso di instituire un fondo in memoria della figlia: la Safe Road Society, dedicata a rendere più percorribili e più vivibili per i pedoni le strade egiziane, con l’idea di costruire anche un tunnel pedonale sotto il Maadi.
Un’altra storia raccontata nella pubblicazione “Volti dietro i numeri”, a cura dell’Oms, è quella di Jane, 42 anni, morta in Camerun, il 16 settembre 2002 mentre si recava con un’autista da Yaounde a Douala, dove viveva con il marito e cinque figli. Il marito racconta che la donna fu trasportata in un vicino ospedale pubblico nel bosco: l’ambulanza rifiutò di portarla in una struttura migliore, pensando che non avesse abbastanza denaro per pagarsi le spese. <<Jane arrivò in ospedale ancora cosciente, scongiurava che l’aiutassero perché perdeva molto sangue, ma i medici non la operarono subito, non c’era personale sufficiente. Morì cinque ore dopo il ricovero>>. Questo triste epilogo fa capire quanto possa essere importante un primo soccorso tempestivo e un’efficace sistema sanitario, che purtroppo in Africa è quasi inesistente. Il più piccolo dei figli di Jane, Justice, aveva appena 3 anni. Pius Niawe, il marito di Jane, per tener desto il ricordo della moglie ha creato un’organizzazione chiamata Justice and Jane. <<Voglio continuare ad essere d’aiuto alle persone – racconta Pius – perché lei è stata d’aiuto agli altri. Ho dedicato tutto me stesso alla promozione della sicurezza stradale. Ogni anno stampiamo 100mila volantini per dire alle persone di stare attente, usiamo slogan come: “Le strade sono una proprietà pubblica, dobbiamo condividerle”. Oppure: “Se vai di fretta guida piano” o ancora: “Bevi o guida, fai una scelta!”>>.
Carneficina invisibile
L’Oms non esita a paragonare gli incidenti stradali a virus incurabili come l’Aids. Quella degli incidenti è però una calamità che a differenza delle malattie letali, per le quali la scienza ancora non ha fatto il salto di qualità, può essere arginata grazie alla prevenzione, all’informazione, alla presa di coscienza della sua gravità. Il Paese più “fragile” nel continente africano è la Nigeria, dove la media è di 33,7 persone uccise sulle strade ogni anno su 100mila abitanti nella regione; seguono il Sudafrica con una media di 31,9 morti l’anno, la Guinea Bissau e il Ciad, con quasi 30 morti. Si consideri che la media regionale in Africa è di 23 morti ogni 100mila. L’Etiopia non rientra nella top dei cinque peggiori (conta circa 18 morti ogni 100mila abitanti) ma è diventato un caso quando nel 2011 il settimanale Newsweek pubblicò un lungo articolo dal titolo “Il killer ignorato” che metteva in evidenza storie e numeri da virus letale. <<La morte provocata dalla guida è come un’epidemia – scriveva Andrew Ehrenkranz - Come ogni malattia il suo avanzare potrebbe essere rallentato grazie ad iniziative mirate, maggiori fondi stanziati e migliore istruzione. Mentre i soldi per combattere Aids, malaria e tubercolosi hanno raggiunto un totale di 4,7 miliardi di dollari negli ultimi sette anni, solo 100 milioni di dollari sono stati devoluti per promuovere la sicurezza stradale>>. L’Etiopia contava allora 190 morti ogni 10mila veicoli. Questa almeno la fotografia tre anni fa. Dal 2011 ad oggi è stata fatta molta strada: se non altro a livello di cooperazione, risoluzioni delle Nazioni Unite e documenti globali per la riduzione degli incidenti stradali. La piaga della mancata road safety è considerata seria e virale (perché “infetta” pedoni, automobilisti, ciclisti e quanti accidentalmente si trovano invischiati nel traffico quotidiano di città super caotiche) dall’Oms, tanto quanto le malattie più gravi e conclamate.
Immergendoci ulteriormente nei dati a nostra disposizione, ricaviamo altri sconcertanti dettagli. Come quello, apparentemente scontato, del soccorso dopo gli incidenti stradali: in alcuni Paesi africani non ci sono ambulanze o non arrivano sul posto. In ben 22 di questi Paesi meno del 10% dei pazienti feriti gravemente beneficiano del soccorso in ambulanza: solo in nove dei 44 Paesi monitorati i pazienti riescono a raggiungere l’ospedale su una vettura del pronto soccorso.
America Latina al bivio
Susana Suarez era venezuelana, aveva 35 anni e faceva la dentista. Lei e un’amica sono state falcidiate in strada mentre tornavano dalla spiaggia vicino Tucaras: due delle 130mila vittime della strada in America Latina nel 2013, dove muoiono in media 19mila persone su 100mila abitanti. <<Non ero preparata alla sua morte – ammette la sorella Lilian Suarez – Stava tornando a casa in macchina e attraversava un ponte ma aveva una gomma sgonfia. Susana e la sua amica sono finite nelle acque del fiume Aroa in un punto in cui sono molto profonde>>. Erano vicine alla città di Tucaras nello Stato di Falcon in Venezuela. Ai 130mila morti ogni anno si vanno ad aggiungere anche sei milioni di feriti per incidenti stradali che nella gran parte dei casi rimangono disabili a vita. Anche qui un piccolo progresso è stato fatto: la buona notizia viene dalla creazione dell’Ibero-American Road Safety Observatory, sostenuto dalla Banca Mondiale. Si tratta di un istituto di ricerca ed analisi dei dati che serve a monitorare tutto il Sud America fornendo indicatori e politiche atte a migliorare la situazione. In America Latina la proiezione è di 30 morti ogni 100mila abitanti e l’impegno è quello di far scendere questo numero a 15 ogni 100mila abitanti entro il 2020. Argentina, Cile e Uruguay hanno raggiunto buoni risultati grazie a <<forti politiche e cambiamenti istituzionali che hanno migliorato le amministrazioni>>, spiega Veronica Raffo della Banca Mondiale. Inoltre lavorare alla sicurezza stradale significa anche lavorare per l’uguaglianza perché la mancanza di sicurezza colpisce i più vulnerabili. Sono cinque i pilastri che l’Oms elenca: infrastrutture e strade più solide; veicoli sicuri e guidatori nel pieno delle loro facoltà; formazione e campagne di sensibilizzazione e un’adeguata risposta ospedaliera nel momento immediatamente successivo all’incidente d’auto. L’alleanza globale di attori che vanno dalle ong alle scuole, dagli esperti agli economisti ai missionari, sta contribuendo al raggiungimento dei cinque obiettivi per un mondo più sicuro e quindi più umano.
(Da Popoli e Missione di maggio 2014)
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