martedì 24 giugno 2014

L'EX GENERALE, GLI ISLAMICI E LA CIA

Ilaria De Bonis
  (Popoli e Missione)
I nodi libici mai sciolti tornano al pettine del Paese senza pace. Milizie islamiche rivali, ex ribelli e militari venuti da lontano si contendono il vuoto politico lasciato aperto da un impotente governo centrale. E confermano che la Libia è ancora affogata nel pantano in cui la lasciarono tre anni fa la Nato e le potenze straniere (sparite molto celermente), sostenitrici dell’urgenza di una guerra contro Gheddafi.
La prova di forza per il momento è vinta dall’ex generale Khalifa Haftar - un tempo fedelissimo del rais e poi suo nemico giurato - che dipinge se stesso come un vessillo nazionalista deciso a combattere le milizie islamiche (principalmente Ansar al Sharia).


In attesa dei risultati elettorali del prossimo 25 giugno per il rinnovo del Parlamento libico proviamo a ricostruire i fatti.

Di Haftar tutti parlano come di un personaggio ambiguo e vicino alla Cia: "Elevato a rango di colonnello negli anni Ottanta - scrive Lettera 43 - guidò le truppe libiche nella sanguinosissima guerra contro il Ciad. (…) Poi Gheddafi decise di abbandonarlo, disconoscendolo. Ma a salvarlo furono gli Usa".

Il periodico Foreign Policy spiega come il generale Haftar – che prima di tornare in Libia nel 2011 da ribelle, viveva esiliato in Virginia - il 16 maggio scorso abbia guidato con determinazione le forze paramilitari da lui chiamate “Esercito Nazionale” in un attacco armato contro il governo di Bengasi, che ha ucciso 70 persone e ne ha ferite oltre cento. Una sorta di colpo di Stato, il suo, che ha avuto come conseguenza la deposizione del primo ministro e lo scioglimento del parlamento. 

Come sempre sono i media arabi a tenere banco sugli argomenti scottanti del Medio Oriente: l’emittente Al Jazeera ci aggiorna frequentemente, così come fa Al Arabya, sull’evoluzione libica, comprese le nuove elezioni per il rinnovo del parlamento. Lo schema adottato da Bengasi sembra ricalcare quello egiziano, dove, mesi fa in nome della sicurezza e della libertà, l’esercito ha sottratto il potere ai Fratelli Musulmani, reprimendo nel sangue la rivolta dei suoi sostenitori e adesso tramite i suoi rappresentanti, vince le elezioni. In Libia le cose sono un po’ diverse ma gli obiettivi si somigliano: gli estremisti islamici non sono al potere, ma minacciano di prenderselo e chi promette di combatterli vince. In questo caso un oscuro ex generale. A complicare il tutto c’è il dato di fatto che in Libia il panorama è ancora meno netto che negli altri Paesi arabi. Qui la “Primavera” è stata in realtà una guerra civile pilotata da forze esterne.

"L’insurrezione libica venne fin dall’inizio mostrata all’opinione pubblica come una semplice lotta tra il bene e il male – scrive l’Independent -: Gheddafi e il suo regime vennero demonizzati e i suoi oppositori trattati in modo naif, senza la benché minima dose di scetticismo". Inoltre la Libia, strutturata in gruppi clanici, ha sempre subito l’estrema frammentazione delle famiglie rivali, che la dittatura dei Gheddafi riusciva a malapena a tenere sotto controllo. Oggi la Libia è tornata quella che non aveva mai smesso di essere, con l’aggravante che la guerra civile del 2011 e l’interregno post-gheddafiano, mal gestito e debolissimo, hanno acuito le rivalità ed esacerbato le posizioni interne.

La fragilità del governo di transizione ha lasciato spazio ad un pulviscolo di aspiranti al potere, milizie armate, gruppi estremisti islamici ed ex militari. "Tre anni dopo Gheddafi, la Libia sta implodendo nel caos e nella violenza", scrive ancora Patrick Cockburn dell’Independent, in un lucido pezzo d’analisi in cui spiega tra l’altro per quale motivo, secondo lui, la Nato avrebbe sostenuto con grande enfasi la fine del rais. 

"Gheddafi era un dittatore spietato che inflisse al popolo il culto della sua puerile personalità (…). Ma le forze della Nato che lo deposero - e che in un certo senso diedero ordine di ucciderlo – non lo fecero perché era un governatore tirannico, ma piuttosto perché aveva portato avanti una politica nazionalista sostenuta da grandi quantità di denaro, che era entrata in conflitto con le politiche occidentali in Medio Oriente", scrive Cockburn.


Del parlamento e del governo libico successivo alla guerra civile parla anche l’agenzia di stampa Reuters: "Il parlamento della Libia è paralizzato dalle divisioni tra partiti islamici e rivali nazionalisti, lasciando molti libici frustrati dalla mancanza di progresso verso una vera transizione democratica".
La fragile democrazia è passata da una crisi all’altra in un Paese che a marzo scorso aveva già cambiato tre primi ministri e non aveva ancora una costituzione scritta.

"Le milizie sono l’eredità più problematica della guerra - scriveva il mensile Popoli - Già nei primi giorni del conflitto sono nati gruppi combattenti. Ognuno di essi si è costituito attorno ad un clan o ad una cittadina. Oggi i miliziani sarebbero 150mila, divisi in centinaia di gruppi. (…) Il governo di Tripoli non controlla il Paese. Le coste sono in mano alle milizie in combutta con i trafficanti di uomini". 
Una situazione al momento esplosiva, rispetto alla quale la comunità internazionale appare disarmata e impotente perché incapace di tener testa all’intreccio delle fazioni e all’eterogeneità dei protagonisti in campo. (tratto dall'Osservatorio Medio Oriente del mensile Popoli e Missione)

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