<<La logica divina non è quella umana. Il tempo di Dio non corrisponde al nostro tempo cronologico. Di queste guerre, della carneficina di Gaza e del Medio Oriente in fiamme, noi uomini non possiamo vedere altro che l’incomprensibile effetto immediato: la morte della ragione>>. Per fortuna non quella di Dio. Perfino in un inferno sulla terra come quello della Striscia di Gaza, dove, a pochi giorni dal cessate il fuoco - si contano 2.100 palestinesi uccisi, oltre 11mila case distrutte, 64 soldati israeliani morti, cinque civili israeliani colpiti dai missili di Hamas, un reporter italiano morto sul campo.
A parlare è suor Lucia Corradin, elisabettina, al servizio nel Caritas Baby Hospital di Betlemme. Parla di «genocidio» dei palestinesi di Gaza e dice che la logica del rispetto della vita è stata deliberatamente sovvertita in Terra Santa. L’esercito israeliano l’8 luglio scorso - ufficialmente per annientare l’azione terroristica del gruppo islamico Hamas - ha iniziato a bombardare questa striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 12. Dove vive un milione e mezzo di persone prigioniere di angusti confini. Da Gaza infatti non si esce. Chiusa su tre lati dai valichi con l’Egitto e con Israele, dall’agosto 2005 (anno del “disimpegno” di Sharon), la Striscia è destinata alla mattanza. Negli ultimi nove anni la guerra è stata ciclica, spietata e puntuale.
L’hanno chiamata ora Summer Rains - “Piogge estive” - nel 2006 (il primo attacco militare israeliano con truppe di terra), ora “Inverno caldo”, ora ”Piombo fuso” nel dicembre 2008. Stavolta è “Margine Protettivo”. Inevitabile? <<Il primo inganno è la pretesa che non ci siano alternative>>, scrive l’israeliano Gideon Levy.
Lotta per la sopravvivenza
<<Pregate per noi perché la forza della preghiera arriva fin quaggiù - la voce che risponde al telefono quando componiamo il numero della missione di Gaza è serena - Confermiamo che stiamo tutti bene. Ci sentiamo delle privilegiate ad essere rimaste qui a Gaza. Il nostro coraggio viene dal Signore>>. E’ una delle quattro suore Missionarie della Carità che durante i bombardamenti erano nella Striscia. Non sono uscite per non abbandonare i 28 bambini invalidi a loro affidati. In sottofondo sentiamo colpi di mortaio.
<<Eravamo riusciti a mantenere delle esistenze apparentemente normali fino allo scorso 7 luglio. Poi il delirio più totale>>: Sayd Al-Ray ha voce mite e sottile, spezzata dalla paura. E’ un ragazzo gazawi di 27 anni con moglie e due figli. Lavora come operatore umanitario a Gaza. <<Non sappiamo che tipo di armi Israele stia usando – dice - Sappiamo solo che squadre mediche ricevono corpi in pezzi mentre altri sono totalmente carbonizzati>>. Sayd racconta di una lotta quotidiana per la sopravvivenza dentro la paura costante che una bomba si abbatta sul tetto di casa. Figli che si stringono alle gonne delle mamme e mariti e mogli che cercano di non perdersi mai d’occhio per non rischiare di morire lontani l’uno dall’altra. <<Quella notte c’è stato un momento che ha separato la morte dalla vita – ricorda Sayd -: abbiamo sentito il fischio d’un razzo che arrivava e subito dopo una grande esplosione. Al mattino ho raccolto tutto quello che potevo e ho portato la mia famiglia in un posto più sicuro>>. Ma non ci sono posti sicuri a Gaza. Neanche gli ospedali e tanto meno le scuole delle Nazioni Unite. <<Mia figlia di cinque anni mi ha detto: “Papà quando andrò da Dio gli dirò cosa Israele ci ha fatto”. Questo mi ha completamente scioccato: lei stava cercando di accettare il destino>>, dice ancora Sayd. Cosimo, un chirurgo di Medici Senza Frontiere ha estratto un proiettile dalla vena cardiaca di una ragazza di 20 anni. <<Gli altri due pazienti che ho operato la notte scorsa avevano ferite toraciche causate dalle esplosioni>>, racconta. Molti dei feriti giunti all’ospedale al-Shifa di Gaza sono stati trasferiti dall’ospedale di al-Aqsa, già bombardato. <<La crisi di cui siamo testimoni a Gaza non è ebraica né musulmana. E’ una crisi umana>>, spiega l’arcivescovo Desmund Tutu. Ecco: un deficit di umanità. Una perdita dell’istinto di sopravvivenza.
Impotenza del diritto
Vittorio Arrigoni, cooperante e giornalista italiano ucciso nel 2011 a Gaza, usava concludere le sue corrispondenze con <<Stay Human>> (Restiamo umani, ndr). <<I figli di un Allah minore – scriveva – continuano ad espiare l’eredità di un odio tramandato di generazione in generazione per una colpa che non hanno commesso>>. Ma restare umani si può, di fronte a guerre che uccidono più bambini che soldati? Perché neanche le Nazioni Unite riescono ad attivare canali per impedire la mattanza dei civili, a Gaza come anche in Siria, e più di recente in Iraq? La violazione del diritto umanitario è reato? E se sì perché non è sanzionabile? Il diritto internazionale fa acqua da qualche parte. <<Perché i nostri governi non intervengono quando l’oggetto degli attacchi da parte dei militari israeliani diventano le ambulanze che cercano di portare soccorso ai feriti? – scrivono in un comunicato otto Ong italiane - Eppure la IV Convenzione di Ginevra (art. 20) è chiara: non garantire l'accesso e la protezione del personale ospedaliero adibito al soccorso e al trasporto dei feriti e dei malati civili è un crimine di guerra>>. Eppure ogni decisione che ha a che fare con la guerra e con la pace continua a passare attraverso le strettoie del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove i membri permanenti con diritto di veto, e dunque quelli che decidono, sono ancora le cinque nazioni vincitrici dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Russia (la stessa Russia di Putin in guerra contro l’Ucraina), Cina, Regno Unito e Francia. <<Chiunque di noi può osservare, analizzando i principali casi degli ultimi decenni, dall’Iraq, all’Afghanistan, al Corno d’Africa, alla Palestina, ai Balcani, all’ex Unione Sovietica>> che ci sono delle costanti, si legge in una lettera aperta scritta da Link 2007. Anzitutto <<i conflitti militari causano sofferenze indicibili alle popolazioni civili e aggravano, piuttosto che risolvere, i problemi posti a loro giustificazione>>. L’esasperazione militare rende il mondo nella sua globalità più insicuro e instabile e alimenta, piuttosto che indebolire, la spirale rovinosa del terrorismo. E’ arrivato il momento di cambiare le regole. E di prevedere sanzioni certe e inderogabili.
C’è chi dice no
Nel caso specifico di Israele e Palestina, si tratta, inoltre, di un conflitto del tutto asimmetrico. Perché le forze armate israeliane non sono paragonabili alla guerriglia di Hamas. <<Il nocciolo della questione è semplice - spiegano i giornalisti Nicola Perugini e Neve Gordon -: nei conflitti asimmetrici del mondo contemporaneo, i deboli non hanno molte alternative. I palestinesi della Striscia non possono scappare perché i valichi di frontiera sono chiusi; perché anche le case dei vicini sono dei bersagli e perché chi è già un profugo non vuole diventarlo due volte. Quindi restano dove sono>>. L’indignazione di fronte alla palese violazione del diritto umanitario arriva anche da medici e scienziati, per definizione bipartisan: <<Siamo sconvolti per l'assalto militare su semplici civili a Gaza con il pretesto di punire i terroristi – scrivono in una lettera pubblicata dal mensile scientifico The Lancet - Questa è la terza aggressione militare su vasta scala a Gaza dal 2008. Ogni volta il bilancio delle vittime è costituito principalmente da persone innocenti, in particolare donne e bambini. Questa azione ferisce l'anima, la mente e la resilienza delle giovani generazioni>>. Ancora Amira Hass ad Israele: <<Se la vittoria si misura con la capacità di provocare un trauma devastante a 1,8 milioni di persone che aspettano solo la morte, allora la vittoria è vostra>>. Noam Chomsky ha scritto che <<lo scopo di tutti gli orrori cui stiamo assistendo è semplice: tornare alla “normalità”. Quando questa ondata di attacchi avrà avuto fine, Israele spera di riprendere la sua politica criminale nei territori occupati senza alcuna interferenza e con il sostegno che gli Stati Uniti gli hanno sempre garantito. Gli abitanti della Striscia di Gaza saranno invece liberi di tornare alla normalità della loro prigione (…)>>.
I morti di Siria e i califfi d’Iraq
<<Le forme moderne di guerra si combattono implacabilmente contro i civili. Poco più di un secolo fa la proporzione tra le vittime militari e civili era di otto a uno. Negli anni Novanta le cifre si sono capovolte. Diffondere la paura tra i civili è un elemento fondamentale delle guerre moderne>>, scrive Joan Smith per l’Independent. Una chiave di lettura, questa, per comprendere quanto accade anche nel resto del Medio Oriente in fiamme. Nelle perenni e striscianti guerre civili scatenatesi in Libia come in Iraq, e naturalmente in Siria, diversi analisti vedono l’effetto della destabilizzazione seguita alle guerre occidentali o filo-occidentali, che hanno alterato violentemente gli equilibri interni, deposto e ucciso tiranni. Imposto leggi. Senza comprendere la complessità della variegata realtà sul campo. A farne le spese sono naturalmente ancora una volta le inermi popolazioni locali. Secondo uno studio realizzato da ricercatori americani e iracheni, tra il 2003 e il 2011 avrebbero perso la vita 460.800 civili in Iraq, anche per via del collasso dell'infrastruttura sanitaria. Stesso desolante panorama in Siria, dove la popolazione muore vittima del conflitto che dura da tre anni tra l’esercito del tiranno Assad e le tante fazioni di ribelli che continuano a frazionarsi, alimentando rivalità endogene. Oltre duemila civili, di cui 500 bambini, sono stati uccisi dai bombardamenti governativi su Aleppo e su località della provincia tenute dai ribelli siriani, a partire dall'inizio di quest’anno, secondo quanto riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria.
Un Medio Oriente senza più cristiani?
L'allarme più scioccante e la minaccia più seria, al momento, è quella lanciata dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), composto da terroristi che vagheggiano di restaurare un califfato islamico nell’area (l’istituzione del califfato, lo ricordiamo, venne abolita nel 1924 dalla Repubblica turca). Questa inaspettata quanto implacabile “svolta” estremista dà conferma di quanto si è sempre temuto: che le conseguenze nefaste della guerra voluta da George Bush e dai suoi alleati il 20 marzo 2003, per destituire il tiranno Saddam Hussein, fossero alla lunga peggiori della causa che l’aveva scatenata. <<Il Paese fu rapidamente occupato ma la resistenza all'invasione, sotto forma di una guerriglia continua e indomabile, ha dimostrato che una schiacciante supremazia militare in campo aperto non è sufficiente per garantirsi il controllo di un territorio>>, si legge sul sito di Senza Soste. L’Isil, nato nell’ottobre 2006, persegue due obiettivi che lo distinguono da altri gruppi ribelli e da Al Qaeda: è confessionale (sunnita) ed è panislamista. Vuole eliminare tutti gli islamici sciiti e i cristiani dal territorio che pretende di controllare: gran parte dell’Iraq, da Mosul a Kirkuk a Tikrit, e la Siria sottratta al controllo di Assad. Un “arco” jihadista che pare un mutante in senso peggiorativo ed estremista dei gruppi islamici finora conosciuti, con ramificazioni afghane e siriane. Nelle settimane scorse questi jihadisti hanno costretto i pochi cristiani rimasti nella seconda città irachena a lasciare le loro abitazioni. «I cristiani sono a Mosul da secoli e quelle famiglie sono state improvvisamente strappate via dalla loro città, dalla loro casa, dalla loro vita. Siamo davvero preoccupati per il futuro dei cristiani in questo Paese», denuncia monsignor Saad Syroub, intervistato da Acs. Un analista canadese, Gwynne Dyer ha scritto che <<quando gli statunitensi e i loro alleati hanno invaso l’Iraq, 11 anni fa, a Mosul c’erano ancora 60mila cristiani. L’anno scorso ne erano rimasti 30mila e oggi, ad appena due mesi dall’avvento degli estremisti dello Stato islamico, sono spariti del tutto. La maggior parte di loro è fuggita in Kurdistan senz’altro bagaglio che i vestiti che avevano indosso. Non vogliono tornare indietro e se potranno lasceranno il Medio Oriente>>. E’ veramente questo il futuro che vogliamo? O non è forse arrivato il tempo di sedersi ad un tavolo e riscrivere le regole del gioco, come avvenne all’indomani della seconda Guerra mondiale, perché si possa proteggere prima i popoli e poi gli eserciti? (ilaria de bonis da Popoli e Missione di settembre-ottobre. Foto tratte da album di Meri Calvelli)
A parlare è suor Lucia Corradin, elisabettina, al servizio nel Caritas Baby Hospital di Betlemme. Parla di «genocidio» dei palestinesi di Gaza e dice che la logica del rispetto della vita è stata deliberatamente sovvertita in Terra Santa. L’esercito israeliano l’8 luglio scorso - ufficialmente per annientare l’azione terroristica del gruppo islamico Hamas - ha iniziato a bombardare questa striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 12. Dove vive un milione e mezzo di persone prigioniere di angusti confini. Da Gaza infatti non si esce. Chiusa su tre lati dai valichi con l’Egitto e con Israele, dall’agosto 2005 (anno del “disimpegno” di Sharon), la Striscia è destinata alla mattanza. Negli ultimi nove anni la guerra è stata ciclica, spietata e puntuale.
L’hanno chiamata ora Summer Rains - “Piogge estive” - nel 2006 (il primo attacco militare israeliano con truppe di terra), ora “Inverno caldo”, ora ”Piombo fuso” nel dicembre 2008. Stavolta è “Margine Protettivo”. Inevitabile? <<Il primo inganno è la pretesa che non ci siano alternative>>, scrive l’israeliano Gideon Levy.
Lotta per la sopravvivenza
<<Pregate per noi perché la forza della preghiera arriva fin quaggiù - la voce che risponde al telefono quando componiamo il numero della missione di Gaza è serena - Confermiamo che stiamo tutti bene. Ci sentiamo delle privilegiate ad essere rimaste qui a Gaza. Il nostro coraggio viene dal Signore>>. E’ una delle quattro suore Missionarie della Carità che durante i bombardamenti erano nella Striscia. Non sono uscite per non abbandonare i 28 bambini invalidi a loro affidati. In sottofondo sentiamo colpi di mortaio.
<<Eravamo riusciti a mantenere delle esistenze apparentemente normali fino allo scorso 7 luglio. Poi il delirio più totale>>: Sayd Al-Ray ha voce mite e sottile, spezzata dalla paura. E’ un ragazzo gazawi di 27 anni con moglie e due figli. Lavora come operatore umanitario a Gaza. <<Non sappiamo che tipo di armi Israele stia usando – dice - Sappiamo solo che squadre mediche ricevono corpi in pezzi mentre altri sono totalmente carbonizzati>>. Sayd racconta di una lotta quotidiana per la sopravvivenza dentro la paura costante che una bomba si abbatta sul tetto di casa. Figli che si stringono alle gonne delle mamme e mariti e mogli che cercano di non perdersi mai d’occhio per non rischiare di morire lontani l’uno dall’altra. <<Quella notte c’è stato un momento che ha separato la morte dalla vita – ricorda Sayd -: abbiamo sentito il fischio d’un razzo che arrivava e subito dopo una grande esplosione. Al mattino ho raccolto tutto quello che potevo e ho portato la mia famiglia in un posto più sicuro>>. Ma non ci sono posti sicuri a Gaza. Neanche gli ospedali e tanto meno le scuole delle Nazioni Unite. <<Mia figlia di cinque anni mi ha detto: “Papà quando andrò da Dio gli dirò cosa Israele ci ha fatto”. Questo mi ha completamente scioccato: lei stava cercando di accettare il destino>>, dice ancora Sayd. Cosimo, un chirurgo di Medici Senza Frontiere ha estratto un proiettile dalla vena cardiaca di una ragazza di 20 anni. <<Gli altri due pazienti che ho operato la notte scorsa avevano ferite toraciche causate dalle esplosioni>>, racconta. Molti dei feriti giunti all’ospedale al-Shifa di Gaza sono stati trasferiti dall’ospedale di al-Aqsa, già bombardato. <<La crisi di cui siamo testimoni a Gaza non è ebraica né musulmana. E’ una crisi umana>>, spiega l’arcivescovo Desmund Tutu. Ecco: un deficit di umanità. Una perdita dell’istinto di sopravvivenza.
Impotenza del diritto
Vittorio Arrigoni, cooperante e giornalista italiano ucciso nel 2011 a Gaza, usava concludere le sue corrispondenze con <<Stay Human>> (Restiamo umani, ndr). <<I figli di un Allah minore – scriveva – continuano ad espiare l’eredità di un odio tramandato di generazione in generazione per una colpa che non hanno commesso>>. Ma restare umani si può, di fronte a guerre che uccidono più bambini che soldati? Perché neanche le Nazioni Unite riescono ad attivare canali per impedire la mattanza dei civili, a Gaza come anche in Siria, e più di recente in Iraq? La violazione del diritto umanitario è reato? E se sì perché non è sanzionabile? Il diritto internazionale fa acqua da qualche parte. <<Perché i nostri governi non intervengono quando l’oggetto degli attacchi da parte dei militari israeliani diventano le ambulanze che cercano di portare soccorso ai feriti? – scrivono in un comunicato otto Ong italiane - Eppure la IV Convenzione di Ginevra (art. 20) è chiara: non garantire l'accesso e la protezione del personale ospedaliero adibito al soccorso e al trasporto dei feriti e dei malati civili è un crimine di guerra>>. Eppure ogni decisione che ha a che fare con la guerra e con la pace continua a passare attraverso le strettoie del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove i membri permanenti con diritto di veto, e dunque quelli che decidono, sono ancora le cinque nazioni vincitrici dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Russia (la stessa Russia di Putin in guerra contro l’Ucraina), Cina, Regno Unito e Francia. <<Chiunque di noi può osservare, analizzando i principali casi degli ultimi decenni, dall’Iraq, all’Afghanistan, al Corno d’Africa, alla Palestina, ai Balcani, all’ex Unione Sovietica>> che ci sono delle costanti, si legge in una lettera aperta scritta da Link 2007. Anzitutto <<i conflitti militari causano sofferenze indicibili alle popolazioni civili e aggravano, piuttosto che risolvere, i problemi posti a loro giustificazione>>. L’esasperazione militare rende il mondo nella sua globalità più insicuro e instabile e alimenta, piuttosto che indebolire, la spirale rovinosa del terrorismo. E’ arrivato il momento di cambiare le regole. E di prevedere sanzioni certe e inderogabili.
C’è chi dice no
Nel caso specifico di Israele e Palestina, si tratta, inoltre, di un conflitto del tutto asimmetrico. Perché le forze armate israeliane non sono paragonabili alla guerriglia di Hamas. <<Il nocciolo della questione è semplice - spiegano i giornalisti Nicola Perugini e Neve Gordon -: nei conflitti asimmetrici del mondo contemporaneo, i deboli non hanno molte alternative. I palestinesi della Striscia non possono scappare perché i valichi di frontiera sono chiusi; perché anche le case dei vicini sono dei bersagli e perché chi è già un profugo non vuole diventarlo due volte. Quindi restano dove sono>>. L’indignazione di fronte alla palese violazione del diritto umanitario arriva anche da medici e scienziati, per definizione bipartisan: <<Siamo sconvolti per l'assalto militare su semplici civili a Gaza con il pretesto di punire i terroristi – scrivono in una lettera pubblicata dal mensile scientifico The Lancet - Questa è la terza aggressione militare su vasta scala a Gaza dal 2008. Ogni volta il bilancio delle vittime è costituito principalmente da persone innocenti, in particolare donne e bambini. Questa azione ferisce l'anima, la mente e la resilienza delle giovani generazioni>>. Ancora Amira Hass ad Israele: <<Se la vittoria si misura con la capacità di provocare un trauma devastante a 1,8 milioni di persone che aspettano solo la morte, allora la vittoria è vostra>>. Noam Chomsky ha scritto che <<lo scopo di tutti gli orrori cui stiamo assistendo è semplice: tornare alla “normalità”. Quando questa ondata di attacchi avrà avuto fine, Israele spera di riprendere la sua politica criminale nei territori occupati senza alcuna interferenza e con il sostegno che gli Stati Uniti gli hanno sempre garantito. Gli abitanti della Striscia di Gaza saranno invece liberi di tornare alla normalità della loro prigione (…)>>.
I morti di Siria e i califfi d’Iraq
<<Le forme moderne di guerra si combattono implacabilmente contro i civili. Poco più di un secolo fa la proporzione tra le vittime militari e civili era di otto a uno. Negli anni Novanta le cifre si sono capovolte. Diffondere la paura tra i civili è un elemento fondamentale delle guerre moderne>>, scrive Joan Smith per l’Independent. Una chiave di lettura, questa, per comprendere quanto accade anche nel resto del Medio Oriente in fiamme. Nelle perenni e striscianti guerre civili scatenatesi in Libia come in Iraq, e naturalmente in Siria, diversi analisti vedono l’effetto della destabilizzazione seguita alle guerre occidentali o filo-occidentali, che hanno alterato violentemente gli equilibri interni, deposto e ucciso tiranni. Imposto leggi. Senza comprendere la complessità della variegata realtà sul campo. A farne le spese sono naturalmente ancora una volta le inermi popolazioni locali. Secondo uno studio realizzato da ricercatori americani e iracheni, tra il 2003 e il 2011 avrebbero perso la vita 460.800 civili in Iraq, anche per via del collasso dell'infrastruttura sanitaria. Stesso desolante panorama in Siria, dove la popolazione muore vittima del conflitto che dura da tre anni tra l’esercito del tiranno Assad e le tante fazioni di ribelli che continuano a frazionarsi, alimentando rivalità endogene. Oltre duemila civili, di cui 500 bambini, sono stati uccisi dai bombardamenti governativi su Aleppo e su località della provincia tenute dai ribelli siriani, a partire dall'inizio di quest’anno, secondo quanto riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria.
Un Medio Oriente senza più cristiani?
L'allarme più scioccante e la minaccia più seria, al momento, è quella lanciata dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), composto da terroristi che vagheggiano di restaurare un califfato islamico nell’area (l’istituzione del califfato, lo ricordiamo, venne abolita nel 1924 dalla Repubblica turca). Questa inaspettata quanto implacabile “svolta” estremista dà conferma di quanto si è sempre temuto: che le conseguenze nefaste della guerra voluta da George Bush e dai suoi alleati il 20 marzo 2003, per destituire il tiranno Saddam Hussein, fossero alla lunga peggiori della causa che l’aveva scatenata. <<Il Paese fu rapidamente occupato ma la resistenza all'invasione, sotto forma di una guerriglia continua e indomabile, ha dimostrato che una schiacciante supremazia militare in campo aperto non è sufficiente per garantirsi il controllo di un territorio>>, si legge sul sito di Senza Soste. L’Isil, nato nell’ottobre 2006, persegue due obiettivi che lo distinguono da altri gruppi ribelli e da Al Qaeda: è confessionale (sunnita) ed è panislamista. Vuole eliminare tutti gli islamici sciiti e i cristiani dal territorio che pretende di controllare: gran parte dell’Iraq, da Mosul a Kirkuk a Tikrit, e la Siria sottratta al controllo di Assad. Un “arco” jihadista che pare un mutante in senso peggiorativo ed estremista dei gruppi islamici finora conosciuti, con ramificazioni afghane e siriane. Nelle settimane scorse questi jihadisti hanno costretto i pochi cristiani rimasti nella seconda città irachena a lasciare le loro abitazioni. «I cristiani sono a Mosul da secoli e quelle famiglie sono state improvvisamente strappate via dalla loro città, dalla loro casa, dalla loro vita. Siamo davvero preoccupati per il futuro dei cristiani in questo Paese», denuncia monsignor Saad Syroub, intervistato da Acs. Un analista canadese, Gwynne Dyer ha scritto che <<quando gli statunitensi e i loro alleati hanno invaso l’Iraq, 11 anni fa, a Mosul c’erano ancora 60mila cristiani. L’anno scorso ne erano rimasti 30mila e oggi, ad appena due mesi dall’avvento degli estremisti dello Stato islamico, sono spariti del tutto. La maggior parte di loro è fuggita in Kurdistan senz’altro bagaglio che i vestiti che avevano indosso. Non vogliono tornare indietro e se potranno lasceranno il Medio Oriente>>. E’ veramente questo il futuro che vogliamo? O non è forse arrivato il tempo di sedersi ad un tavolo e riscrivere le regole del gioco, come avvenne all’indomani della seconda Guerra mondiale, perché si possa proteggere prima i popoli e poi gli eserciti? (ilaria de bonis da Popoli e Missione di settembre-ottobre. Foto tratte da album di Meri Calvelli)
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