giovedì 14 novembre 2013

Lampedusa: il mea culpa dell'Africa

(Ilaria De Bonis)
Numerosissimi quotidiani africani hanno pubblicato editoriali critici nei confronti dei loro governanti, soprattutto dopo l'ultima Lampedusa.
Dall’Observer di Kampala al blog Cho Forche del Camerun, all’Independent ugandese. La domanda cruciale è per tutti un po' la stessa: perché la gente scappa? Cosa la spinge fuori dalle terre africane? La risposta è non solo la povertà. Ma anche il malgoverno. Le politiche fallimentari dei leader africani.

<<Non c’è un solo motivo per cui un Paese debba produrre così tanti rifugiati se non per via dell’incapacità di alcuni suoi leader politici>>, scrive l’Independent di Kampala in un’analisi dal titolo: “Perché gli africani muoiono per andare in Europa?”. E prosegue: <<Fin dalle prime tragedie di Lampedusa i gruppi in difesa dei diritti umani in Africa occidentale hanno fatto appello ai governi dei loro Paesi affinché affrontino il problema dell’immigrazione illegale o irregolare, considerata la strada verso il suicidio>>. Addirittura la denuncia va ben oltre l’immaginato: <<Mentre l’Italia il 4 ottobre scorso proclamava un giorno di lutto nazionale con le bandiere a mezz’asta per i morti di Lampedusa, molti governi dell’Africa orientale, da dove arrivavano gran parte degli immigrati deceduti, sono rimasti in silenzio>>.

Uno dei Paesi con il maggior numero di disperati in arrivo sulle carrette del mare è da sempre l’Eritrea <<i cui cittadini fanno di tutto per darsi un’opportunità in più. E non si tratta solo dell’Eritrea, anche gli ugandesi prendono al balzo l’opportunità di partire. Molti di loro sono giovani uomini in cerca di una vita migliore>>, scrive l’editorialista. La verità, aggiunge, è che a questi governi poco importa che i loro concittadini debbano imbarcarsi in un’impresa immensa senza garanzie e senza sicurezza: l’importante è che mandino i soldi a casa.


Gli immigrati sono una risorsa per i Paesi d’origine: in Uganda ogni anno i migranti inviano a casa oltre 700 milioni di dollari. E la cifra è vista in ascesa, fino a raggiungere un miliardo di dollari nel 2014. Insomma una ricchezza non indifferente della quale non si può far a meno, costi quel che costi.


Il sito di All Africa cita L’Independent dello Zimbabwe che parla del governo italiano: Letta e Alfano, argomenta l’editorialista, <<non vogliono che la gente muoia ma neanche vogliono che gli africani restino in Italia>>.
Inoltre <<come in altri Paesi europei che vedono aumentare il flusso dei richiedenti asilo, anche in Italia l’aumento dei migranti provenienti da Africa e Medio Oriente non fa che alimentare le ondate di intolleranza contro l’immigrazione>>. E prosegue in chiusura di articolo: <<L’atroce verità è una sola: più l’Europa farà di tutto per rendere sicuro l’attraversamento del Mediterraneo, più la gente farà di tutto per partire. Molti di questi migranti che rischiano la vita sulle carrette del mare sono veri rifugiati o richiedenti asilo ma dietro di loro, nella vastità dell’Africa occidentale, della Somalia e dell’Iraq, ci sono alcune centinaia di migliaia di persone che stanno solo cercando una chance di raggiungere l’Europa. I nazionalisti lo negheranno ma è così>>. Esattamente come un tempo l’America per gli europei, il Vecchio Continente è oggi l’eldorado degli africani alla ricerca di fortuna.

L’Africa si chiede dunque come fare per trattenere i propri concittadini: la gente non ama più l’Africa? Ad essa preferisce l’Europa? La speranza di una vita migliore, di una opportunità in più, spingono anche gli africani comuni, quelli che non rischiano ogni giorno la vita, ad andar via. In cambio trovano la morte.

Non è solo la politica del continente nero nel mirino degli opinionisti: anche la burocrazia africana è responsabile della diaspora. Il blog Chofor Che pubblica un’interessante analisi dal titolo: “I burocrati africani da biasimare per la tragedia di Lampedusa”. <<Gran parte del mio biasimo - scrive il blogger - va ai leader africani e soprattutto all’Unione africana. Il sistema di governance in Africa, ereditato dai padroni colonialisti, rimane repressivo. Nonostante il gran parlare che si fa della rinascita africana, la maggior parte degli africani rimangono disperati e poveri>>. E prosegue: <<Secondo Venture Africa il continente nero ha più miliardari di quelli che possiamo immaginare: il paradosso è quello segnato da un continente pieno di ricchi e pieno di poveri. E’ evidente che diversi leader africani non hanno mantenuto la promessa fatta ai loro elettori in campagna elettorale: i piccoli e medi imprenditori non hanno alcuna possibilità di crescere, le tasse sono esorbitanti e il diritto alla proprietà rimane un’illusione. Conflitti e tensioni politiche sono all’ordine del giorno in Somalia o in Libia. Con una situazione del genere senza speranza e senza via di scampo, perché gli africani non dovrebbero desiderare un ambiente più libero e in pace, adatto allo sviluppo economico?>>. La soluzione, dice ancora il blogger, <<è nelle mani dei burocrati e tecnocrati africani che hanno deciso di accumulare ricchezza e potere a detrimento delle popolazioni. I leader dovrebbero aprire i mercati in Africa>> in modo che la gente comune non debba rischiare di morire nella speranza vana di trovare “pascoli più verdi” altrove>>.

giovedì 7 novembre 2013

Quel maledetto pacifista del presidente

(Ilaria De Bonis)

Sembra che non ne faccia più una giusta ormai: qualcuno in Occidente lo giudica troppo bellicoso e prossimo alla politica interventista di Bush, qualcun altro in Medio Oriente lo accusa di codardia e falso pacifismo.
In generale Barack Obama è sempre meno popolare sia in Occidente che tra gli arabi e gli israeliani, i quali, per opposte ragioni hanno stigmatizzato la marcia indietro del Presidente rispetto alla ‘crociata’ siriana. 


<<Se gli Stati Uniti sono così indecisi ed esitanti (sulla Siria ndr.) cosa succederà vis à vis con l’Iran?>>. Se lo chiede con preoccupazione Amos Gilbo sul quotidiano israeliano Ma’ariv nell’editoriale titolato ‘I malvagi sorridono’. La stampa ebraica è evidentemente delusa e definisce i ripensamenti di Obama su un attacco armato contro Assad ‘una debolezza pericolosa’ che non lascia presagire nulla di buono per quanto riguarda il nemico israeliano numero uno dopo la Palestina: l’Iran.

<<Non credo serva molta imm
aginazione per figurarsi le facce soddisfatte dei malvagi di Teheran, Damasco o Beirut – scrive Gilbo - Questi personaggi fiutano la debolezza a distanza come fossero cani da caccia e capiscono che anche se l’operazione americana fosse portata avanti, sarebbe simile ad un leggero schiaffetto, e che subito dopo Assad potrebbe tranquillamente riprendere le sue operazioni usando aerei, missili, tank o semplici coltelli da macellaio>>.


Il giornalista Hagay Segal su Yedi’ot Ahronot scrive qualcosa di analogo, azzardando un giudizio storico: <<Barack Obama non riceverà medaglie al valore. Gli storici lo derideranno – dice – Scriveranno che nel 2012 il presidente fissò una red line per i siriani e quando questi la oltrepassarono nel 2013 fece ogni sforzo per sottrarsi al proprio dovere (…). Il linguaggio corporeo del presidente suggerisce determinazione ma la sua azione comunica debolezza>>.


Per la stampa araba dei Paesi anti-Assad, Obama è ugualmente codardo, ma stavolta l’Iran non c’entra: la non-guerra alla Siria, secondo i media sauditi e per quelli degli Emirati Arabi Uniti, è il segno che gli Usa non hanno intenzione di schierarsi con la popolazione civile inerme. E che dunque non difenderanno gli arabi dal terrorismo di Stato. In una lettera aperta al presidente, il noto opinionista di Al- Arabiya, tv di Dubai, scriveva settimane fa: <<Mr Obama, ad esser franchi, noi non abbiamo altri che lei>>. Un attacco militare <<è l’ultima chance>>. Al- Arabiya è considerata l’emittente televisiva più allineata con i sauditi ma in generale un po’ per tutti i giornali arabi la discriminante non è tanto quella famosa ‘linea rossa’ ormai varcata da Assad che avrebbe usato armi chimiche contri i civili (sebbene questa certezza sia oggi tramontata), quanto piuttosto la violenza dimostrata dal presidente nel reprimere la rivoluzione fin dall’inizio. Come dire, la linea rossa è stata oltrepassata giù da tempo, perché nessuno ha fatto niente? Gli Usa sono gli unici cui il mondo arabo si rivolge, non avendo un’Europa di riferimento.

<<Che cosa ha fatto il presidente americano finora? – scrive il quotidiano panarabo Al-Hayat – Nulla!>>. Sotto scacco è la non- azione più che il non intervento armato. Non azione politica, diplomatica, fisica. L’altro motivo di critica nei confronti di Obama è la verosimile dipendenza da Israele: <<il governo israeliano che nelle sue fila annovera anche criminali di guerra, vuole che gli Usa distruggano ciò che rimane della Siria. Ancora più importante – scrive sempre Jihad el-Khazen di Al Hayat – Israele vuole che gli Stati Uniti attacchino l’Iran e distruggano il suo programma nucleare, cosicchè Israele possa essere l’unica potenza nucleare della regione, minacciando Paesi vicini e lontani>>.

Di tutt’altro avviso sono naturalmente russi e cinesi. Fin dall’inizio pro-Assad. Per i primi, sia il famoso discorso di Obama che ha ritardato il voto del Congresso americano, sia il successivo parere negativo del Congresso, sono stati un successo diplomatico. <<Non ricordo un altro simile successo della diplomazia russa. Dico: bravo!>>, twitta così RT, una delle tv di Stato russe.

L’Iran plaude alla marcia indietro: Jomhuri-Ye Eslami, quotidiano iraniano scrive che Obama si è reso conto del fatto che sarebbe stato isolato se avesse attaccato. Non avrebbe avuto alleati. Certamente anche dall’Europa il presidente avrebbe ricevuto poco sostegno e comunque le opinioni pubbliche europee ed americane sono sembrate fin dall’inizio per niente convinte della necessità di questo attacco militare. Il francese Le Figaro scrive: <<Ad esser sinceri, Obama ha cercato di replicare sistematicamente ai dubbi e alle domande degli americani circa la necessità di un’azione militare limitata in Siria…>>. C’è riuscito fino ad un certo punto, poi ha desistito.


In definitiva, che lui fosse convinto o meno di questa guerra, il suo popolo stavolta non sarebbe stato con lui. Bastava guardare la rete, leggere i tweet, farsi un’idea dell’aria che tirava tramite video e news on-line. I social network hanno fin dall’inizio smontato le certezze sull’uso delle armi chimiche da parte del regime. Poi, tra gli eventi più attesi e più efficaci, è giunta la parola del papa. E’ arrivata la veglia per la pace di Francesco. <<Guerra e violenza hanno il linguaggio della morte>>, ha detto il 10 settembre scorso. E i quotidiani europei hanno così trovato i loro titoli di prima pagina. «Quando l’uomo si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio – ha detto papa Francesco - rovina tutto: apre la porta alla violenza, all’indifferenza e al conflitto».