giovedì 16 maggio 2013

Women of the Wall: se le ortodosse si schierano

Chiedono di poter pregare esattamente come gli uomini al Kotel, il Muro del Pianto di Gerusalemme, sfidando l’ortodossia religiosa ebraica. Le Women of the Wall, femministe ebraiche (in gran parte esponenti della 'Riforma') sono nate nel 1988, ma solo oggi riescono a farsi sentire in modo dirompente. La loro protesta sta facendo il giro del mondo, col contributo di Twitter. E' però la presenza delle ebree ortodosse a far la differenza: alcune hanno addirittura aderito al board del movimento, tutte le altre sono schierate con i rabbini haredim. La questione 'spacca' in due Israele e comincia ad irritare i laici.

Triste Rosh Chodesh
La poliziotta che l’“accompagna” all’esterno del Monte del Tempio, l’area sacra per eccellenza, seguita a vista da telecamere e fotografi, evita di ammanettarla, quasi le accarezza un braccio mentre la tiene ferma. La ragazza è figlia della rabbina Susan Silverman, che stavolta festeggerà anche lei, suo malgrado, il Rosh Chodesh dietro le sbarre del carcere di Gerusalemme. Hallel sui giornali appare sicura di sè.
Madre e figlia, entrambe attiviste di The Women of The Wall hanno “osato” sfidare le regole del Muro   imposte dall’ortodossia ebraica. Hanno pregato assieme ad altre decine di religiosissime donne ebraiche, esattamente come fanno gli uomini: indossando particolari paramenti sacri, leggendo ad alta voce la Torah (il libro sacro ebraico), cantando e srotolando le pergamene dei tefillin. E sono state per questo arrestate come avviene ogni volta che le donne si impossessano del rituale religioso maschile. Stavolta, però, è successo un putiferio, tanto che è al vaglio della Corte Suprema israeliana un compromesso “legale”.
Le Donne del Muro nascono in Israele 25 anni fa grazie ad Anat Hoffman che è attualmente una delle attiviste di punta del movimento. Ogni primo del mese (giorno di Rosh Chodesh) si ritrovano assieme percorrendo il dedalo di stradine della Città Vecchia. Entrano da una delle maestose porte antiche e a passo spedito raggiungono l’immacolato piazzale antistante il Muro del Pianto, indossando il talled (lo scialle sacro), la keppah e custodendo i rotoli del libro sacro. Fanno per questo imbestialire i rabbini sefarditi.
Preso posto nella porzione di Muro a loro riservata, le Women iniziano a pregare. Gli haredim spesso le insultano. Lanciano invettive. Qualcuno le strattona. Loro proseguono imperterrite, si danno la mano formando una catena. Finché non arrivano i poliziotti a portarle via. La scena si ripete ogni mese, più o meno teatralmente, da oltre 24 anni. Ad aprile di quest’anno, però, gli arresti hanno fatto il giro del web e del mondo. Anche grazie ai tweet di Sarah Silverman, nota attrice comica israeliana, sorella di Susan e zia di Hallel: Così orgogliosa di mia sorella e di mia nipote per il loro atto di disobbedienza civile>>, ha twittato Sarah.

L'adesione delle ortodosse
Queste retate spettacolari iniziano ad irritare profondamente tanto gli ebrei americani quanto i cittadini israeliani. Le Donne del Muro hanno centinaia di sostenitori ma la novità è che ora anche le ebree ortodosse si uniscono alle “progressiste” di Women of the Wall.
Haaretz, il quotidiano della sinistra israeliana, scrive: <<Molti israeliani si stupiranno di sapere che due degli otto membri del board di Women of the Wall sono in effetti donne ortodosse, una delle quali ha assunto questa posizione appena una settimana fa e sono in corso negoziazioni per farne entrare nel comitato altre due>>.
Se così fosse si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione interna che preoccupa lo Stato d’Israele perché allarga sempre di più il divario tra l’obsoleto mondo religioso ultra-ortodosso - fatto di regole penalizzanti per le donne, per i non ebrei, per gli arabi, per gli ebrei “riformati” – e quello più aperto e moderno dell’ebraismo legato alla Riforma americana. Tanto che la Corte Suprema ha dovuto aprire uno spiraglio ipotizzando una terza area di preghiera mista (uomini e donne assieme), dove sia possibile pregare tutti allo stesso modo. Si tratta del compromesso Sharansky (dal nome del procuratore che l’ha proposto) – sollecitato dal premier Nethanyau che vorrebbe chiudere una volta per tutte una disputa estremamente pericolosa per la tenuta del frammentato Stato ebraico.

La “Riforma” rinnova Israele
<<Noi cerchiamo di scalzare l’idea che debba per forza esistere un monopolio ortodosso in materia religiosa>> ci spiega la rabbina Namaah Kelman, 55 anni, americana, tre figli, femminista, oggi preside dell’Hebrew Union College di Gerusalemme ed esponente di punta della corrente della Riforma ebraica. In effetti nel 1948, quando nacque lo Stato d’Israele, i padri fondatori concessero al rabbinato ortodosso il controllo su molte delle questioni sociali e famigliari cruciali in Israele. Ma oggi questo monopolio andrebbe rivisto, come chiedono a gran voce i cittadini israeliani.
<<L’unico modo che abbiamo per far sentire la nostra voce è rivolgerci alla Corte Suprema, non alla Knesset (il Parlamento ebraico, ndr)>>, racconta la rabbina che è stata la prima donna ordinata rabbino a Gerusalemme nel lontano 1992. Lei sente di avere una missione, come tutti gli ebrei israeliani che aderiscono al movimento della Riforma: quella di diffondere un ebraismo nuovo, al passo con i tempi e in grado di mettere la donna al centro di una visione.
D’altro canto l’ultima cosa di cui Israele ha bisogno, soprattutto in questa delicata fase storica, è il calo dei consenso da parte degli Stati Uniti e in generale della diaspora ebraica nel mondo occidentale.
<<La nostra è una questione molto semplice – insistono le Donne del Muro lanciando in rete un tweet -. Chiediamo il pieno diritto delle donne a pregare liberamente al Kotel secondo il nostro credo>>.
Le rigide regole dei rabbini sefarditi vorrebbero ancora imporsi (come in passato) su un ebraismo “riformato” e moderno, su quello più progressista e sul grande universo dei laici. La sfida è aperta, anche se i numeri sono a favore degli ultraortodossi che “crescono” sempre di più grazie all’altissimo tasso di natalità. E’ comunque in corso una lotta tra un mondo ostile ai cambiamenti che fa a pugni con la pretesa democraticità dello Stato ebraico, e una legittima sete di modernità che pare inarrestabile. (Ilaria De Bonis)

giovedì 2 maggio 2013

La via tunisina alla democrazia

Di Ilaria De Bonis e Concetta Gelardi
Il noto predicatore islamico Nabil Al Awadhi, alla fine di gennaio di quest'anno dal Kwait è arrivato nella bellissima Zarzis, sulla costa meridionale tunisina. La gente lo ha acclamato, decine di bambine hanno sfilato per omaggiarlo e sono state fotografate in gruppo accanto a lui. Indossavano l’haik, il velo islamico. Le loro foto, scioccanti per una Tunisia moderata, hanno fatto il giro del web.
Piccole come bambole, nere e velate fino ai piedi, le bambine del paese dei gelsomini hanno incontrato il predicatore wahhabita conosciuto  nel mondo arabo per le sue fatwe.
La reazione di sdegno della società civile tunisina è stata immediata. Settanta deputati dell'Assemblea costituente tunisina, colpiti da quelle immagini, hanno presentato una mozione di condanna nei confronti di Nabil Al Awadhi. A guidarli era una donna, Wafa Marzouk, eletta nelle file del partito Ettakatol. 
Accade anche questo nella Tunisia post-rivoluzionaria che assaggia solo oggi il sapore della libertà e del confronto. «La democrazia si conquista giorno per giorno», dice la gente. E non è mai data per scontata.
«E’ ovvio che ognuno di noi, in ogni settore della società liberata dalla dittatura, ora voglia imporre un proprio modello di vita e di pensiero; –  ci spiega Chema Gargouri, tunisna doc, direttrice della Enterprises Fèminines Durable, Ong che promuove l’imprenditoria tra le donne - . Ma il bello di questa fase è che nessuno soccombe. C’è un dibattito interno, siamo vivi. Spesso ci scontriamo, ci confrontiamo. Se non siamo d’accordo manifestiamo». Anche contro i tentativi dei movimenti salafiti di manipolare la vita privata delle persone.

Incontriamo Chema in un bar italiano, di fronte ad un gigantesco Mono Prix, in un quartiere residenziale a nord di Tunisi. Rumorosa e trafficata, è la nuova zona commerciale, quella dei grandi magazzini. Lei arriva trafelata, ma decisa. Poggia la sua borsa Louis Vuitton sul tavolo e ordina un cappuccino. Chema non teme una minaccia islamica in Tunisia. Ha fiducia nelle mille sfaccettature della società più laica. E soprattutto ha fiducia nelle donne. 



La rimonta dell’opposizione 

«So che non siamo ancora al sicuro. Chi può pensare che questa transizione avvenga senza alcun rischio? - precisa lei che ha 46 anni, è islamica, ha due figli, ed è divorziata - . Ora sta avvenendo un’altra rivoluzione: quella psicologica. E’ un cambio di mentalità. I paesi occidentali pretendono che la Tunisia sia un modello perfetto, una sorta di ‘copia e incolla’ dalle democrazie europee. Se questo non succede gridano al pericolo islamico. Ma non si può cambiare in un solo giorno e neanche in un solo anno! E’ un processo lungo che stiamo affrontando».
Il crollo della dittatura è stato uno shock, una rivoluzione bella e spontanea che adesso lascia spazio alla mediazione.
«Credere che tutto cambi solo grazie alla fine di un regime e all'arrivo di un nuovo governo significa in un certo senso credere in una nuova dittatura», spiega ancora Chema.
Ennahda, partito al potere nell’attuale governo di transizione, è espressione di un islam tutto sommato moderato ma alcune sue frange risultano molto sensibili alle richieste dei movimenti salafiti. Eppure all’inizio di febbraio di quest’anno per la prima volta un sondaggio sulle intenzioni di voto dava Nidaa Tounes, partito laico d’opposizione, al primo posto.  Inoltre l'omicidio del leader dell'opposizione democratica, Chokri Belaid, il 6 febbraio scorso a Tunisi, ha ulteriormente indebolito i consensi attorno ad Ennahda. 
«Chi vincerà? – si domanda Fabio Merone, ricercatore della fondazione tedesca Gerda Henkel che finanzia un progetto sull’islamismo nella regione  - Vince chi riesce ad imporre il proprio discorso politico a patto che non usi la violenza». L'ex arcivescovo di Tunisi, monsignor Maroun Lahham, fa notare che «i paesi arabi che scelgono l’Islam politico devono sapere che questo o è moderato o non ha nessuna possibilità di riuscire. Nessun paese, arabo o non, può più vivere in un ghetto religioso o politico, tantomeno la Tunisia che ha una naturale apertura alla cultura del Mediterraneo».
Lahham dice anche che l’assenza dell'islam politico in Tunisia è stata solo apparente: «i regimi non permettevano l’esistenza di nessun partito serio d’opposizione. Quelli islamici esistevano ma erano oppressi, perseguitati e la persecuzione non ha fatto altro che donar loro più fermezza».
«Se si vuole un Islam politico moderato bisogna avere una forte opposizione», suggerisce la Gargouri. La società civile qui può ancora avere un ruolo, un impatto. Il lavoro deve esser fatto a partire dal basso, dalla base, dal rafforzamento dei diritti. Ma quanto si rischia ancora di cadere nelle mani degli estremismi ?

Primavera scippata?
L’incubo dell’occidente, e anche un po’ la sua nevrosi, è che le Primavere siano sostanzialmente fallite e che il futuro del post-rivoluzione si riveli peggiore della dittatura, compresa quella di Zine El-Abidine Ben Ali. I giovani e i professionisti che incontriamo a Tunisi e nelle cittadine turistiche sul mare, però, non sono affatto d’accordo: «Avete un’idea di com’era la Tunisia prima? Siamo in un momento di grande cambiamento, abbiamo molti partiti, fermento. Tutti hanno possibilità d’esprimersi», dice Ahmed Amine Tourki, consulente del ministero del turismo. Parla francese ma anche inglese e sa qualche parola di spagnolo e d’italiano.
Mentre sorseggiamo un thè ai pinoli e menta al Cafè les Nattes, nella parte alta della bianca Sidi Bou Said, tra narghilè, musica e relax, Ahmed ci spiega che «la rivoluzione è esplosa per ottenere tre cose, non solo il pane: libertà, lavoro e uguaglianza. Questo era un paese fortemente diseguale. Noi chiedevamo dignità. Ad un certo punto siamo stati maturi per reclamare la nostra dignità». E quando si arriva a questo punto di non ritorno, quando il popolo, a partire dalle banlieu, dai sobborghi più miseri e affamati della capitale e dell’entroterra, fino ai piani alti di Tunisi, sente di aver toccato quel punto lì, scompare anche la paura.

Oggi il centro di Tunisi è confusione, polvere e parole. Minareti, edifici coloniali in malora, stucchi scrostati. La folla prende mille direzioni, le auto si incastrano alle auto in ingorghi immaginari. Ai bordi delle strade venditori ambulanti di caramelle e calzini sostano senza limiti di tempo. Doveva essere ben più brillante ed energica avenue Bourghiba, il viale ‘parigino’ che spacca in due la città ed imita gli Champs Elysee, a gennaio del 2011, nei giorni della rivolta. Oggi è frenetica, stanca, caotica. I giovani passeggiano, prendono taxi ad ogni ora. Aspettano. La novità è che parlano liberamente e con chiunque. Intavolano discussioni, si collegano ad internet, aprono siti di news on-line, possono rivolgersi senza paura ai turisti. Raccontano la loro rivoluzione. Come Walid Masrouki e la sua bella moglie Faten, che appena trentenni, hanno fondato un giornale sul web, Tunis14. Chiediamo a Walid se teme l'affermazione di Ennhada: «La nostra soluzione siamo noi stessi. Sono le risorse umane necessarie per dirigere il paese. La soluzione non è Ennhada, è l’opposizione. Arrivi al popolo tramite la religione, ma poi servono capacità tecniche e politiche per governare ed Ennhada queste non ce le ha».  Walid e Faten sono molto 'europei', lei veste alla parigina. Andiamo a trovarli nella periferia ‘buona’ della capitale, Ariana. Ampi viali, villette, auto nei garage all’aperto, e appartamenti dalle vetrate enormi con i fiori rampicanti nei giardini. «Con Ben Ali non si sarebbe neppure potuta concepire un’intervista come questa», confessa Walid. «I giornalisti venivano fermati appena sbarcati in aeroporto, c’era censura su tutto». Svela di avere oltre mille followers su Twitter, e che il suo giornale nato da due mesi appena è più seguito della carta stampata ufficiale. «Con Ben Ali solo internet era libero – spiega - e la dittatura non ha saputo gestire questa richiesta di libertà. Quando ha provato a oscurare Facebook la gente è scesa in piazza». Adesso che il popolo non ha più paura cerca la propria strada alla democrazia.

Salafiti, jihadismo e Islam moderato
Le proposte sociali e politiche sono svariate: quella del jihadismo salafita preoccupa più di altre. «Il gruppo degli Ansar al-sharia cresce a vista d'occhio, e già al raduno di Kairouan, ad un anno dalla loro ufficializzazione (Maggio 2012), si sono riuniti in circa 10mila», scrive Fabio Merone. Ma chi sono esattamente i salafiti? Gli chiediamo.
«Il salafismo è una parte più generale del fenomeno dell’islamismo ma di per sé non costituisce un ostacolo alla democrazia – risponde lui, autore di numerosi articoli sull’argomento – Abbiamo due tipi di salafismo: quello scientifico, che spinge l’osservante ad un comportamento di rettitudine nella sfera privata, e poi quello jihadista che è per eccellenza un movimento politico. Prende le categorie della religione e le utilizza per affrontare una minaccia esterna o interna. In Tunisia ci sono entrambe: lo jihadismo si sta radicando molto nei quartieri popolari, soprattutto tra il sottoproletariato. Ansar al-sharia, ad esempio, è un movimento che si è ben organizzato e che costituisce un progetto alla luce del sole».
Eppure, dice ancora Merone, che vive da anni a Tunisi: «io penso che la democrazia tunisina non sia affatto in pericolo: oggi questo è un paese che con grande maturità non ha paura di guardare in faccia le sue mille contraddizioni. Il radicalismo islamico fa parte integrante della società arabo-musulmana. E questa non è una cosa nuova. La cosa nuova è che oggi la Tunisia mostra al mondo arabo di saper gestire le sue contraddizioni senza ricorrere allo strumento facile della repressione».
Il cosiddetto ‘modello tunisino’ da Bourghiba in poi, aveva piuttosto costipato la società tunisina. Aveva ‘nascosto’ quel che non piaceva ai governanti e che di rimando non piaceva neanche all’Europa: Francia e Italia in primis.
La rivoluzione e la cacciata di Ben Ali hanno tolto un tappo e portato allo scoperto le tante anime represse, religione compresa. Il partito di Ennhada è un’espressione di quello che non era stato eliminato ma solo messo ai margini.
«La parola jihadismo fa un po’ paura ma in realtà è un movimento giovanile. Nei giorni della rivolta esisteva un soggetto sociale rivoltoso urbano per le strade, che si contaminava molto con gli ultrà, con le organizzazioni giovanili da stadio che rappresentava esattamente l’altra faccia della Tunisia. Paradossalmente il salafismo per questi ragazzi disoccupati, poveri, senza chance, ha costituito il modo per veicolare il loro essere nella società. Da passivi e puramente violenti hanno cominciato ad esistere pubblicamente».
Ora sta ai tanti studenti, all’ottima elite intellettuale, agli attivisti, alle donne lavoratrici, alle centinaia di Ong, vigilare affinchè l’estremismo non abbia la meglio: è la sintesi di quello che andiamo raccogliendo tra i nostri interlocutori. Myriam, una giovane donna che andiamo a trovare a casa racconta la sua fede: «io sono musulmana perché tunisina. Questa è la mia cultura, sono le mie radici, come per voi europei quelle cristiane. La fede è una questione privata, nessuno può giudicarti se non Dio stesso. In Tunisia questa differenza è sempre stata netta e non credo proprio che si possa tornare indietro». Se domandi alla classe media se si senta più musulmana o più tunisina, dirà anzitutto tunisina. E nel frattempo come si vive in Tunisia? L’economia è ripartita?
 Tra sconforto e rinascita
Visi sorridenti, una lingua che passa senza troppa fatica dall’arabo al francese, all’inglese all’italiano: i tunisini parlano tranquillamente. Senza sfuggire, senza nascondersi, parlano tutti: dal tassista all’imprenditore, dallo studente al giornalista. Sono passati due anni da quel 14 gennaio 2010, quando Ben Ali lasciava il paese. «Spesso prevalgono disillusione e  sconforto: si può parlare liberamente di politica oggi, ma la situazione economica è al collasso», spiega Myriam che lavora in un ufficio legale. Lei la rivoluzione l’ha vissuta in prima persona. In quei giorni ha studiato, lavorato, ospitato giornalisti stranieri nella casa che condivide con un ragazzo francese. «Nessuno pensa a come possa sentirsi un popolo dopo lo shock di una rivoluzione», nota Myriam e ci spiega anche come le donne si percepiscano più vulnerabili oggi, meno sicure, meno tutelate. Sembra rattristata quando ammette: «noi non potremo godere appieno della libertà ritrovata, forse lo potranno fare i nostri figli, noi stiamo costruendo le fondamenta». Sul fatto che la rivoluzione sia stata genuina, voluta, inevitabile, i tunisini sembrano più o meno tutti d’accordo. 
Talvolta all’entusiasmo si alternano sentimenti di paura e di disagio, anche economico; al gusto della libertà ritrovata la preoccupazione per la scarsità di cibo, o il costo sempre più alto del carburante, la disoccupazione che avanza, una costituzione che non nasce, le elezioni democratiche rimandate di mese in mese…
I tunisini analizzano la situazione e la seguono costantemente, informandosi sull’evoluzione degli altri paesi arabi, come l’Egitto o la vicina Libia. I giovani che incontriamo hanno spesso studiato o lavorato all’estero, si sentono vicini all’Europa. Forti di un bilinguismo obbligatorio vogliono confrontarsi. Non accettano imposizioni ma sono consapevoli che la società civile è stata per anni anestetizzata.

«Quando  cresci sotto una dittatura non sei abituato a pensare in totale autonomia, a criticare, e molti miei coetanei sono così, non si interrogano, fanno quello che la famiglia o il nuovo potere comandano. Pensate che una delle pratiche più diffuse tra le giovani tunisine è l’imenoplastica, un’operazione che praticamente consente di arrivare  vergini al matrimonio», così Sabri un giovane pubblicitario che ha studiato in Francia e oggi lavora in Tunisia.
Nel suo ‘Chiacchiere datteri e thé’ la giornalista Ilaria Guidantoni si sofferma sulla differenza che c’è tra il portare «un velo sulla testa» o «dentro la testa». Nel primo caso si riscopre una cultura, nel secondo si uccide la libertà. Lei che ha passato molto tempo in Tunisia e ha scritto diversi libri, ci dice che: «la nazione è ricca di cultura e di materie prime, di risorse materiali e immateriali: ci sono poeti, scrittori, artisti. Si può contare su un artigianato di prestigio, una produzione di olio e vino ad alto livello; tutte potenzialità che restavano quasi nascoste nel periodo della dittatura».
La Tunisia insomma rimane un grande laboratorio d’idee e un Paese test tra quelli arabi: «Sono sicuro che ce la farà da sola: - è pronto a scommettere Merone - io sono ammirato, stanno dando una grande prova di maturità. Nonostante l’avanzata islamista e la crisi economica, ce la stanno mettendo davvero tutta».