lunedì 29 aprile 2013

INCOGNITA SALAFITA


Da Popoli e Missione di maggio
 
I prestiti in danaro sono “una forma di usura” e come tali vanno rifiutati, anche se a prestare soldi è l’alleato numero uno tra i Paesi del Golfo: l’Arabia Saudita. A pronunciare il verdetto è il partito salafita egiziano al Nour che mette in guardia contro i 'crediti', considerati operazioni economiche contrarie alla sharia, la legge islamica. La componente islamica salafita esercita non poca influenza sulle società nordafricane, alle prese col post-Primavera. E infiamma ancora molto l’Egitto, tutt’altro che pacificato. Quello che sin dall’inizio è stato guardato con sospetto dagli analisti europei - il movimento islamico dei Fratelli Musulmani, da cui proviene il presidente egiziano Mohammed Morsi - appare meno radicale di quanto si temesse, ma facilmente in balia del “purismo” coranico.
 
«Più la generazione dei Fratelli guadagna importanza nel campo della legalità, più deve affrontare una reazione salafita che denuncia tali “modernizzazioni” come altrettante “concessioni”», dice François Burgat, direttore dell’Istituto francese del Vicino Oriente. Don Marko Talaat, sacerdote egiziano, diocesano di Al Fayoun, ci spiega che «i salafiti hanno preso potere, si impongono anche rispetto agli islamici moderati e sono finanziati principalmente dal Qatar. La situazione in Egitto è davvero peggiorata e la libertà ridotta a zero». La Muslim Bratherhood, più disposta al dialogo con l’Occidente, non è paragonabile al “cugino” salafita (“scientifico” o “jihadista” che sia), anche perché negli anni ha intrapreso profondi revisionismi dottrinari, ma appare oggi completamente nella mani dei radicali. «La linea della Chiesa cattolica in Egitto oggi è: né con i Fratelli musulmani né con i salafiti», dice ancora Talaat. E’ la libertà che va sostenuta.

 

 
 
 Non solo “Fratelli”
 
Sta di fatto che tutti «concentrati sull’ascesa della Fratellanza, gli analisti hanno trascurato l’esistenza di gruppi islamici ad essa alternativi», spiega Pietro Longo, direttore del programma Mediterraneo e Vicino Oriente presso l’istituto di Alti Studi in geopolitica.
 
I gruppi salafiti si muovono con caparbietà e molto vigore accanto (o in competizione con) ai partiti islamici tradizionali e moderati come al Nahda in Tunisia e al Hurriyya wa al ‘Adala in Egitto. Quest’ultimo, Libertà e Giustizia, è il braccio politico dei Fratelli egiziani. I salafiti non spuntano dal nulla ed hanno grandi aderenze sul campo: sono predicatori che riescono a far breccia nei cuori dei giovanissimi nei sobborghi più poveri, spesso disoccupati, esclusi da ogni processo decisionale, tenuti ai margini perfino dopo le Primavere.
 
«Ciò che attrae questi ragazze è il discorso di rottura con una società che riflette di loro un’immagine di perdenti – spiega Samir Amghar, sociologo esperto di salafismo in Francia - Il salafismo si impernia su un’inversione di valori: gli esclusi ritrovano una dignità e acquistano una certa visibilità». Per tutti gli altri, all’avanguardia delle rivolte, invece, i salafiti rappresentano un’involuzione rispetto a diritti e libertà faticosamente conquistati dopo il crollo dei regimi. 
 
Scientifici o jihadisti?
 
<<Il termine in origine si riferiva alle pratiche di vita quotidiana dei musulmani di prima generazione (i salaf salihina o “pii buoni”), modello di un’esistenza utopica>>, scrive Longo. Oggi sono una nebulosa imprevedibile: Burgat precisa che, nonostante la loro comparsa apparentemente recente (in seguito al ritorno in patria degli esiliati dall’Arabia Saudita, il Qatar, i Paesi del Golfo), «il loro credo tra i movimenti islamisti non ha nulla di nuovo». I salafiti si rifanno alle fonti primarie del Corano e della Sunna del profeta, ma vogliono rompere con il sapere e l’esperienza delle scuole giuridiche sunnite in materia teologica. Criticano ogni sacralizzazione dei “mediatori” che si interpongono tra i credenti e Dio e si attengono scrupolosamente agli hadith, le parole di Maometto. Inoltre «la Primavera araba ha resuscitato la distinzione tra un salafismo scientifico ed uno jihadista, il primo tendente alla diffusione del messaggio islamico attraverso la dawa (la predicazione), il secondo con il ricorso a metodi coercitivi», anche in politica, scrive ancora Pietro Longo.
 
Al Nur, fondato nel 2011 ad Alessandria, detiene otto seggi all’Assemblea Costituente, accetta la separazione dei poteri e l’indipendenza della magistratura ma solo nei limiti della sharia. La democrazia dunque può essere impiegata, ma a patto che sia esercitata nei limiti della legge rivelata. 
 
 
Il Cairo non è Tunisi
 
 In effetti lo spazio ‘politico’ occupato dal salafismo egiziano si va allargando perché non è arginato da una forte opposizione interna. Così però non accade in Tunisia, dove la società civile è decisamente più strutturata: gli osservatori internazionali e locali a Tunisi non si stancano di spiegare la “specificità” tunisina. Per capirla meglio però occorre andare sul posto, soprattutto in occasione di grandi eventi internazionali come il World Social Forum di Tunisi. Il pluralismo politico qui non solo resiste ma apre nuovi spazi d’espressione. Nonostante l’omicidio del leader dell’opposizione democratica Chokri Belaid, ucciso il 6 febbraio scorso a Tunisi, ed episodi di crescente tensione, la società civile tunisina non si arrende. «Le donne gridano il dolore dei figli martiri che hanno dato la vita per un avvenire diverso. Donne intrepide che sono
 disposte a tutto per non lasciarsi rubare la rivoluzione», Filippo Ivardi, missionario comboniano, racconta quello che ha visto nelle settimane scorse a Tunisi.
 
Forse è questa la prova che ci si attendeva dai protagonisti della Primavera: anziché dare il via ad una spirale di violenze o gettare la spugna hanno saputo reagire con dignità. Dopo l’omicidio di Belaid, il partito che ha perso veramente consensi, conferma la gente, è stato Al Nahda, giudicato incapace di far fronte agli estremismi.
 
«La Tunisia si trova in un stretta: l’Europa la sta un po’ abbandonando. Dovremmo essere più rigorosi nei confronti dei nuovi governi e al contempo aiutare l’opposizione  a resistere. Io non credo ci siano scorciatoie nella vita dei popoli e delle nazioni; Non so se è più che altro una mia speranza, un affetto che nutro, ma non penso che la Primavera araba in Tunisia sia persa, e ad esser sincero neanche in Egitto. E’ adesso che dobbiamo essere più presenti», spiega Luigi Goglia, docente di Storia e istituzioni dell’Islam alla Terza Università di Roma. Così la pensano anche i missionari.
 
« Io sono molto ottimista: la situazione tunisina è completamente differente da quella egiziana – racconta suor Chantal Vankalck, religiosa belga dell’ordine delle Missionarie di Nostra Signora d’Africa a Tunisi -.Con la cacciata di Ben Ali qui qualcosa è cambiato per sempre e la presenza dei salafiti non è una minaccia ingestibile. L’impressione è che i giovani e soprattutto le donne, abbiano riconquistato una loro dignità e che non abbiano intenzione di perderla. Il punto ora è far sentire la vicinanza e l’appoggio della comunità internazionale in questa fase così delicata».
 
 Tra legalità ed estremismo
 
Il limite da non superare è quello posto dalla legalità, spiega anche Fabio Merone, ricercatore della Fondazione tedesca Gerda Henkel a Tunisi: «Finché i gruppi salafiti si esprimeranno senza far ricorso all’uso della violenza, la loro presenza rientra nel gioco democratico e non può essere ignorata. Rappresentano legittimamente una parte del popolo». Questo labile confine in realtà è stato varcato più di una volta, ma mai in maniera irreversibile. Basta camminare per le vie di Tunisi per scoprire un Paese che non ha affatto “bruciato” la sua Primavera. Qui, a differenza dell’Egitto, la società civile laica e “liberata” ha definitivamente superato il terrore del potere e ha guadagnato il diritto alla “parola”. E sa usarla molto bene.
 
Sono decine e decine le ong, le organizzazioni di donne, di giovani, di sindacati ed attivisti tunisini, gli intellettuali e i giornalisti pronti a “vigilare” sulla neo-nata democrazia. La comparsa del temuto Ansar al Sharia e di altri gruppi minori di salafiti tunisini è un monito costante al “pericolo” di una deriva fondamentalista islamica che tiene desta l’attenzione del popolo. Attraversando il lungo boulevard Bourghiba, che fu il simbolo della rivoluzione contro Ben Ali, si ha l’impressione di una “stanchezza” fisiologica subentrata all’entusiasmo del post-rivolta, ma anche questo è parte del processo, spiegano in molti. Tolto il tappo della dittatura anche i rappresentanti dell’estremismo islamico, un tempo messi alla gogna, sono tornati in patria e fanno proselitismo. Ma è con la forza guadagnata dalla libertà d’espressione e da una ritrovata dignità che i tunisini affrontano il pericolo di una deriva islamica. (Ilaria De Bonis)

martedì 2 aprile 2013

Zanzibar, paradiso amaro

Le palme e l’azzurro cristallino delle acque di Zanzibar non bastano a farne un paradiso. Da troppo tempo nell’isola indipendentista della Tanzania si registrano omicidi mirati: sacerdoti uccisi, cristiani minacciati, incendi di chiese.
Violenze inaudite rivendicate sostanzialmente dal gruppo fondamentalista islamico Uamsho, che in lingua swahili sta per “risveglio”. Dopo l’ultima drammatica esecuzione, quella di padre Evarist Mushi, lo scorso 18 febbraio, ucciso sulla soglia della chiesa di Betras, la stampa africana si è interrogata sui motivi storici, e anche sociali, che hanno
polarizzato il Paese, spaccandolo in due, lungo una faglia che appare esclusivamente religiosa. Nonostante cristiani e musulmani non si siano mai odiati.

Ecco un parere dell’editorialista tanzanese del Daily News locale, Tony Zakaria: «Perché un ristretto gruppo di estremisti sta causando tanti problemi al resto della popolazione in questi ultimi anni? –  ci scrive in una mail -. La sensazione è che la maggior parte dei musulmani non ha nulla contro i cristiani e i cattolici in particolare».

Zanzibar è un arcipelago della Tanzania dove oltre il 95% della popolazione appartiene all’islam e dove i cristiani sono vera minoranza, a differenza del resto della Tanzania. Accade che questi estremisti populisti (Uamsho nasce nel 2001) tengano in pugno i moderati, manipolando il popolo tramite lo strumento della paura, come spiega Zakaria.
 «Come potrebbero i cristiani dominare se anche lo volessero? Il mio timore è che se la violenza cresce, il seme dell’odio germoglierà anche da parte dei cristiani».


Perché il paese sia così connotato in senso religioso, tanto da polarizzarne la politica, lo spiega molto bene il ricercatore universitario tanzanese Ernest Boniface Makulilo, che in un suo lavoro intitolato Religion tensions in Tanzania: Christians versus Muslims, pubblicato per intero dal social network Academia.edu scrive: <<L’assenza di politiche etniche ha lasciato spazio a politiche religiose. La gente vive insieme e in armonia nei villaggi. Il problema è che lo sradicamento delle politiche etniche nella vita socio-economica ha lasciato un vuoto. The vacuum was not filled>>.
Ossia, il vuoto non è stato riempito. In seguito è stato rimpiazzato con <<l’affiliazione religiosa>> e qui sono sorte le prime tensioni.
Makulilo compie un’operazione interessante: va a ripescare episodi di violenza contro i musulmani, tornando indietro nel tempo. Ci mostra un dato che la stampa occidentale ignora. Fino agli anni Novanta la Tanzania è stata in grado di gestire molto bene le diversità religiose, senza tensioni e conflitti. Cos’è successo dopo?

Il 13 febbraio 1998 un episodio molto cruento segna la svolta in peggio: è noto come Mwembechai killings. In seguito a disordini che si erano registrati alcuni giorni prima, e alla denuncia fatta da un sacerdote cattolico a Dar es Salaam, la polizia tanzanese, il 13 febbraio di quell’anno, interviene in una moschea, col sospetto che si siano rifugiati al suo interno “ruffians and criminals”, ‘mascalzoni e criminali’.
Arresta donne anziane, crea il panico. La gente reagisce, la polizia spara lacrimogeni e poi proiettili sulla folla, uccidendo quattro persone. Questo eccidio è uno spartiacque: da qui in poi le tensioni crescono e vengono interpretate sempre più come un divario tra cristiani e musulmani.

La stampa africana oggi scrive che la politica è appiattita sulla religione: i due principali partiti politici sono uno cristiano (Chama Cha Mapinduzi, CCM) e l’altro islamico (Civic United Front, CUF).

L’Independent fa una considerazione sul reclutamento di persone da parte degli estremisti: <<E’ facile reclutare gente a Zanzibar a causa della povertà» dice Hothma Masoud, procuratore generale dell’isola. <<Ci sono elementi dell’islam radicale qui, ma precedentemente trovavano difficile ottenere un sostegno corposo>>.
Anche il portale internazionale Internationl Business Times insiste sull’argomento della povertà: la discordia a Zanzibar è esacerbata dalla sua dipendenza dal turismo. <<Zanzibar, famosa per il suo mix di culture arabe e africane, è una meta turistica di prim’ordine per gli occidentali. Hotel di lusso e bar trendy si trovano a poche miglia da scenari di povertà endemica e questa stridente contrapposizione ha aiutato a potenziare il sentimento estremista>>.
E ancora: <<Al di fuori delle stradine pittoresche di Stone Town, lontano dalle sdraio e dagli ombrelloni degli hotel vista mare, oltre un terzo della popolazione vive in estrema povertà. L’ampio sottoproletariato dei villaggi rurali o quello che condivide appartamenti nei casermoni di epoca sovietica, affronta problemi che di certo non compaiono nelle brochure turistiche>>.  (Ilaria De Bonis)