venerdì 13 luglio 2012

Assedio urbanistico alla città santa


  (Ilaria De Bonis dal mensile Jesus)


Non c’è ressa oggi all’ingresso dell’Haram al Sharif, in Città Vecchia. Sono le dodici e non è tempo di visite per i turisti. I fedeli entrano alla spicciolata. Piove e senza sole la maestosa cupola d’oro della Moschea di Omar pare splendere meno. Shibli e Sultan, i due uomini della security israeliana, si rilassano alle transenne. Scherzano con Ahmad Masood, il guardiano della spianata. Shibli e Sultan sono arabi: il loro compito (nel corpo della polizia di Israele) è quello di assicurare che non scoppino disordini in Città Vecchia. E nel caso, quello di usare le armi, che tengono ben in vista sopra i loro giubbotti antiproiettile. Shibli ha vent’anni, è un beduino di Israele e viene da Haifa.

Sultan è arabo palestinese e vive a Gerusalemme Est. «Gli scontri con gli ebrei avvengono eccome qui», racconta Ahmad il guardiano delle moschee. «I coloni ebraici entrano nei giardini, spesso per sfregio. Non oggi, perché è shabbat. Entrano e disturbano la nostra preghiera. Il Corano dice che questo è il nostro luogo sacro non il loro».

In assoluto il più sensibile dei siti religiosi di Al Quds («la santa», Gerusalemme in arabo), dentro il quadrilatero protetto dalle mura, la spianata ospita la Moschea di Omar dai mosaici azzurri e l’antica Al-Aqsa. Lo stesso sito coincide pericolosamente con il Muro del Pianto, sacro luogo di preghiera per gli ebrei su quello che chiamano Monte del Tempio. Infine, i cristiani guardano al monte come al luogo del Vangelo per i riferimenti alla vita di Gesù nel tempio.

Dentro le mura di Solimano tra odori di spezie e incenso i vicoli s’intersecano: Via dolorosa, Bab Hutta e El Wad. Santo Sepolcro, Ecce Homo e Moschea Rossa. Le processioni di fedeli si sfiorano senza intralcio. Ogni gruppo segue una propria traiettoria. Quella degli ultraortodossi sefarditi e degli haredim somiglia a una corsa a ostacoli. A passo spedito si dirigono ogni venerdì pomeriggio al Muro Occidentale. Qui gli attriti, le tensioni provocate ad arte e gli scontri fisici tra musulmani e polizia, ebrei ortodossi e arabi «sono all’ordine del giorno», spiega Yusuf Natsheh del Waqf, fondazione islamica che tutela i beni culturali e patrimoniali.
Quando si avvicinano le grandi festività religiose ebraiche, come il Kippur o il Sukkot, e i controlli dei militari si fanno più serrati, allora le provocazioni verbali diventano bombe. Notizie come quella della costruzione di un tunnel sotterraneo che minerebbe alle fondamenta la Moschea di Al-Aqsa, o del controverso progetto del centro Wiesenthal per la costruzione di un Museo della Tolleranza proprio sulle ceneri di un antico cimitero musulmano a Mamilla, provocano la reazione risentita degli arabi palestinesi che si asserragliano ancor di più nei luoghi di preghiera come in una fortezza.

«Siamo sotto occupazione militare israeliana e questo dato si ripercuote a maggior ragione sui luoghi sacri dentro e fuori la Città Vecchia», spiega Natsheh, «il paradosso è che questi siti sensibili dovrebbero essere ancora più tutelati e rispettati dalla forza occupante, ma di fatto così non è». Capita invece, talvolta, che siano proprio i rabbini ultraortodossi (gli haredim che ritengono ancora lontana la venuta del Messia e dunque prematuro un ritorno in massa degli ebrei in Israele) a mettere in guardia i propri fedeli circa le provocazioni che generano violenza alterando, dunque, la purezza dei luoghi sacri. «Secondo l’halacha’ (la legge religiosa ebraica) agli ebrei è proibito recarsi al Monte del Tempio per due ragioni: per via della sua santità e per le ripercussioni politiche che la loro presenza può avere in quel luogo», ha dichiarato di recente l’anzianissimo rabbino capo lituano Sholom Elyashiv della comunità aschenazita di Mea Shearim.

La comunità internazionale, rappresentata dagli Stati Uniti e dall’Europa «vuole veramente un doppio stato con una Gerusalemme capitale per due nazioni. E vuole anche una città aperta con garanzia internazionale a statuto particolare. Ma questo punto deve essere discusso assieme agli altri, nel pacchetto del negoziato di pace: insediamenti, ritorno dei profughi, confini del futuro stato e status quo di Gerusalemme. Non si può risolvere uno senza l’altro: formano un mosaico», dichiara monsignor William Shomali, vescovo ausiliare del patriarcato latino di Gerusalemme.


Perché «Gerusalemme non è una città qualsiasi», aggiunge, «e questa sua particolarità religiosa dovrebbe essere tradotta in misure concrete da parte di Israele: dare uguaglianza di diritti e di doveri alle tre religioni senza guardare al numero di ciascuna rappresentanza. I cristiani sono diecimila a Gerusalemme ma non vuol dire che essi debbano godere solo del 2 per cento dei diritti rispetto agli altri. Gerusalemme è sacra per tutte le fedi allo stesso modo».


Il messaggio dei vescovi, veicolato tramite il documento finale presentato a Roma dal Sinodo per il Medio Oriente parla chiaro: «Non è permesso ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento che giustifichi le ingiustizie», si legge, «al contrario il ricorso alla religione deve portare ognuno a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e dei suoi comandamenti». Dal canto loro i padri francescani della Custodia di Terra Santa in diverse occasioni hanno evidenziato aspetti legati al particolare status degli arabi cristiani penalizzati su entrambi i fronti. «Il vero problema per un cristiano», ha dichiarato in una recente intervista il Custode padre Pierbattista Pizzaballa, «è quello di essere cittadino israeliano ma non ebreo, di essere arabo ma non musulmano».


Si tratta dunque «di una minoranza dentro una minoranza». Non ci sono, dal punto di vista della legge, delle vere discriminazioni, «ci sono però de facto delle disuguaglianze di trattamento». Il mondo religioso ebraico è a sua volta estremamente variegato in Israele, tanto che il rabbino capo dei sefarditi, Shlomo Moshe Amar, ha sentito il bisogno di dichiarare recentemente a una radio israeliana: «Il maggior pericolo che affrontiamo è dato da noi stessi non dal terrorismo». Perché il «vero fondamento del popolo ebraico è l’unità. Ma noi diamo priorità agli aspetti materiali del mondo e non all’unità del nostro popolo».


Le posizioni all’interno della compagine eterogenea del mondo religioso ebraico, in effetti, vanno da quella più moderata dei rappresentanti del gran rabbinato di Israele (rabbino Yona Metzger, aschenazita e il rabbino Shlomo Moshe Amar sefardita), a quella dei rabbini estremisti alla guida della cosiddetta "ortodossia moderna", che abbracciano posizioni nazionaliste (sionismo religioso) spesso di estrema destra e si identificano con partiti come lo Shas o il Kach, dalle pericolose derive messianiche. Sfociate di recente nell’arresto di uno dei rabbini della colonia di Yitzhar in Cisgiordania. Era autore del libro scandalo Torat Hamelekh. Ossia, quando è lecito uccidere i non ebrei: «C’è una giustificazione nell’uccidere i bambini se risulta chiaro che in futuro essi possano danneggiarci», si legge nel testo.


Di sicuro interesse, anche se ancora marginale in Israele, è la corrente dell’ebraismo riformato, che all’Hebrew Union College di Gerusalemme ha tra i suoi esponenti di punta una donna: il rabbino Naamah Kelman. Estremamente aperti e tolleranti, gli ebrei della riforma guardano con preoccupazione alle posizioni estreme di un universo ultraortodosso sempre più razzista e sessista.
Le donne ebree religiose a Gerusalemme inoltre stanno scardinando un mondo fatto di regole declinate solo al maschile e a fatica cercano di imporsi nel panorama ebraico israeliano: le "Donne del Muro", in particolare la leader femminista Anat Hoffman che al Muro del Pianto indossa i paramenti religiosi maschili e pretende di pregare anche negli spazi riservati ai soli uomini, sono un’espressione vivace di questa rivoluzione al femminile.


Aprirsi finalmente alle tre fedi e appartenere nella stessa misura a cristiani, ebrei e musulmani non impedirebbe affatto a Gerusalemme di essere materialmente spartita. Anzi. Secondo la maggior parte degli osservatori internazionali la divisione è il presupposto per una pace duratura. «Una spartizione giurisdizionale e amministrativa renderebbe giustizia ad entrambi i popoli», afferma Meir Margalit consigliere comunale del Meretz, il partito di sinistra. Al contrario di quanto fa il Muro di separazione costruito da Israele, che s’incunea nei quartieri Est di Gerusalemme e in Cisgiordania spezzando in due la continuità di quartieri, terre, case e famiglie.


Perfino i politici della destra, a partire dal sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, sanno che prima o poi la città andrà divisa. E in parte restituita. La comunità internazionale preme per questo. Va divisa perché un giorno dovrà essere, che piaccia o meno, capitale di due stati autonomi. «Ma più tempo passa più la parte destinata agli arabi si assottiglia e Barkat ne è consapevole», precisa Margalit. Anzi, è lui l’artefice: «consente ai settler di proseguire nell’opera di colonizzazione dei quartieri palestinesi».


E che il sindaco di Israele assecondi l’opera di costruzione degli insediamenti illegali dentro i quartieri arabi "storici" di Gerusalemme Est, lo conferma anche il demografo di Gerusalemme, Sergio Della Pergola, docente universitario alla Hebrew University. «Barkat è responsabile di questa politica», dice, «sono stato il demografo del piano regolatore di Gerusalemme e dico che è un grave errore costruire una casa di un certo tipo culturale nel mezzo di una zona identificata con un altro tipo culturale. È un errore perché sa di provocazione». Il riferimento è a intromissioni di coloni nazionalisti dentro Silwan, ad esempio, nel sito archeologico della Città di Davide. Quella che Della Pergola chiama «provocazione» altri la chiamano «politica dell’apartheid» o, ancora, «giudaizzazione» di Gerusalemme, per dirla con le parole dell’attivista palestinese Omar Barghouti. Perché se è vero che più tempo passa più i muri invisibili crescono è vero anche che più tempo passa più i numeri si capovolgono: gli ebrei di Gerusalemme erano il 74 per cento della popolazione totale nel 1967, sono il 65 per cento oggi. Gli arabi palestinesi sono passati, nello stesso lasso di tempo, dal 26 per cento al 36 per cento. È per questo che, secondo i pacifisti palestinesi, la «giudaizzazione» di Gerusalemme è stata accelerata.
Il trenino leggero che collegherà la colonia ebraica di Pisgat Zeev alla Porta di Giaffa in Città Vecchia, ad esempio, portando i suoi "residenti" direttamente in centro, è una delle prove più evidenti del tentativo di normalizzare uno status quo. Israele considera oramai a tutti gli effetti parte integrante di Gerusalemme quegli insediamenti ebraici che le Nazioni Unite ancora chiamano illegali (Gilo, Ramot, Neve Yakov, Pisgat Zeev). E su questi ben poco potranno gli interventi della comunità internazionale e degli esponenti religiosi. Il discorso è invece potenzialmente aperto su altre zone arabe che ancora hanno una chance di restare tali.


«Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa», scrivono i vescovi del Sinodo del Medio Oriente, «e siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto». La prima zona nel mirino della destra israeliana in questo senso è Silwan. Seguono Ras al-Amud, Sheikh Jarrah e Monte degli Ulivi. In questi quartieri la presenza dei coloni ebraici – di norma appartenenti ai gruppi nazional-religiosi – mina qualsiasi dialogo di pace. Imponenti residenze costruite ad hoc per i coloni (che anche Israele definisce illegali) sono sorte nella parte più sacra di Gerusalemme Est, tra Ras al-Amud, appena fuori le mura della Città Vecchia, e il Monte degli Ulivi. Come Maale Hazeitim, nei pressi del Getsemani, che presto verrà ulteriormente ampliata con la costruzione di un secondo insediamento Maale David.


A Sheikh Jarrah la politica di sfratto e demolizione di case arabe ha lasciato senza un tetto decine di famiglie. Ma l’allarme maggiore riguarda Silwan: la demolizione sistematica di case arabe ha alzato il livello di tensione, la presenza dei vigilantes privati armati a difesa delle case di coloni ha provocato episodi spesso mortali. Sul Monte degli Ulivi invece accadono storie paradossali come questa: la famiglia di Mahmoud Abu-al hawa, araba palestinese cristiana, vive in un edificio occupato per metà da un settler ebraico che ha piantato un’enorme bandiera bianca e azzurra proprio sul tetto. Quell’appartamento all’ultimo piano è stato comprato nel 2005 da Irving Moskovitz, noto magnate ebreo americano che finanzia le colonie di Gerusalemme Est.

Mahmoud non sapeva che dentro ci sarebbe finito un colono estremista. Suo fratello l’aveva infatti venduto ad un arabo. Poi un giorno al posto del palestinese cui era stata venduta la casa si sono presentati alcuni ebrei israeliani, bagagli alla mano, e si sono trasferiti lì. La famiglia Abu-al hawa da quel giorno vive con il terrore che gli portino via anche l’altro pezzo di casa. Dopo due mesi da quell’incauta vendita il fratello di Mahmoud è stato ammazzato. «Adesso vengono a chiedermi di poter comprare anche l’altra parte della casa. Vengono, bussano, si siedono. Una volta avevano pure i contanti più di mezzo milione di dollari! E volevano casa mia», sorride mentre racconta. «Ma non gliela darò mai.
È la casa dove sono nato e dove mia madre ha vissuto. Eppure se accettassi sarei ricco. Potrei rifarmi una vita in America e i miei figli studierebbero lì. Ma no, io non gliela darò mai questa casa».

giovedì 5 luglio 2012

Israele, democrazia a pezzi


(Di Ilaria De Bonis)
 
Salvare la forma per nascondere la sostanza: il rimpatrio dei rifugiati avverrà con gradualità, senza ricorrere all’uso della forza e in maniera ‘civile’.

Perché <<la tradizione ebraica vuole che gli stranieri siano trattati umanamente e dignitosamente>>. Così assicurava il premier Benjamin Netanyahu il giorno del primo rimpatrio di 120 rifugiati dal Sud Sudan su un volo di sola andata Tel Aviv-Juba.
Sta di fatto che più o meno coercitivamente 3mila rifugiati sud-sudanesi verranno rispediti a casa loro da qui a poco. La politica dei rimpatri ha raggiunto dimensioni preoccupanti in Israele. Il ministro dell’Interno ha perfino posposto la deadline, consentendo l’estensione del premio in denaro a chi lascerà il suolo israeliano ‘sua sponte’: 1.300 dollari a ciascun adulto e 500 dollari ai minori. La stampa israeliana, e non solo quella progressista, ricorda che Netanyahu ha definito i richiedenti asilo africani come ‘una minaccia’ al carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele (<<L'obiettivo prioritario dei nostri sforzi è quello di mantenere il carattere ebraico dello stato di Israele, anche in futuro>>). E stando alle cronache dal 2009 ad oggi su 45 milioni di migranti che hanno tentato di entrare clandestinamente nel Paese attraverso l’Egitto, soltanto tre hanno ottenuto lo status di richiedenti asilo.

A maggio del 2012 sono entrati in Israele 2mila africani, 8mila e 600 dall'inizio dell'anno. Le novità: il carcere (un enorme ‘centro d’accoglienza’ in pieno deserto del Negev) fino a tre anni senza processo a chi tenterà di entrare clandestinamente, e un muro di 240 km lungo la frontiera con l'Egitto. Che sta succedendo in Israele e che ne pensano intellettuali, società civile, attivisti e gente comune? <<Nessuno può dire come sarà questo paese tra dieci anni>>, scrive Gideon Levy sul quotidiano Haaretz. E nessuno può saperlo perché, argomenta Levy, il problema vero di Israele non è tanto la sua sopravvivenza fisica (nonostante la questione di un’imminente minaccia nucleare iraniana e lo spettro costante del terrorismo arabo-palestinese), quanto la sua ‘tenuta’ come Stato democratico. <<Non c’è nessun altro Paese al mondo come Israele – prosegue Levy - Gli Stati Uniti non sanno esattamente che proporzioni  raggiungerà la loro disoccupazione interna tra dieci anni e chi potrà godere di un’assicurazione sanitaria; l’Europa dal canto suo si chiede se l’euro esisterà ancora. Ma in Israele le questioni esistenziali sono incommensurabilmente più profonde e di più ampio raggio, eppure nessuno le affronta>>.


In sostanza - è l’accusa che viene da gran parte del mondo intellettuale ebraico e anche dal sionismo di sinistra - è una democrazia che limita se stessa pur di impedire la presa di coscienza collettiva su realtà troppo a lungo sottaciute: l’occupazione militare, uno stato di tensione permanente, la xenofobia. Lo spettro della minaccia interna e di quella esterna (rappresentata dai clandestini, i rifugiati e i richiedenti asilo) reggono sempre meno. Ecco perché il Parlamento serra le fila e il governo della destra di Netanyahu vara leggi liberticide. <<Nessuno ferma Israele dal diventare sempre più un pariah>>, prosegue Levy. Eppure qualcosa sta cambiando dal di dentro: la gente comune inizia a capire quanto la spesa pubblica e le energie collettive di un intero popolo siano state impiegate male. Dirottate per anni sulla militarizzazione a discapito della costruzione di ponti di pace e di dialogo tra persone e religioni. Vie percorribili in vista di una convivenza futura per ‘due popoli e due Stati’. Ora che la crisi economica morde anche a Tel Aviv, la gente comune non si lascia incantare e scende in piazza per protesta. Certo, la protesta non è sempre coerente, fa un passo avanti e due indietro. Ma qualcosa si è mosso non più di un anno fa. Non è piaciuta ai ministri la più grande manifestazione mai vista (quella dell’estate scorsa) per reclamare lavoro, casa, diritti umani, giustizia sociale, migliore uso della spesa pubblica.Tra gli indignati israeliani non c’erano solo i giovani universitari con la kefiah al collo.

C’erano famiglie intere, nonne e bambini. Che non godranno di un gran futuro a giudicare dalle premesse. <<Israele è un Paese sotto assedio: ma l’assedio è interno. E’ quello di un popolo al quale sono stati chiusi gli occhi per troppo tempo e che adesso sente tutto il peso della mistificazione>>, racconta un giovane studente di Tel Aviv che durante le grandi manifestazioni aveva montato una tenda a Boulevard Rotschild. Il Jerusalem report (lo stesso editore del Jerusalem Post, dunque su posizioni conservatrici), ha dedicato un intero numero al ‘rischio democrazia’, titolando; ‘democracy in Turmoil’ e spiegando le ultime novità legislative messe in campo da alcuni deputati per limitare l’erogazione di fondi stranieri alle Ong israeliane. La mossa tende a dimezzare il numero delle organizzazioni (sempre più consistenti) che si battono per i diritti umani. Una reazione del Parlamento di fronte all’enorme portata della presa di coscienza collettiva.


<<Queste due leggi fanno parte di uno sforzo ben più grande per mettere in difficoltà le organizzazioni che promuovono un cambiamento sociale la cui agenda o le cui priorità non sono condivise da vari parlamentari e dai ministri>>, ha dichiarato Hagai El-Ad, direttore dell’Association for Civil Rights in Israel (ACRI).
<<E questo – prosegue El-Ad - è parte di una strategia che intende oscurare le linee di demarcazione tra ‘delegittimazione dello Stato’ e ogni altra forma di critica a specifiche politiche di governo>>. In sostanza, sebbene questi attivisti non vogliano affatto delegittimare lo Stato, sono considerati dallo Stato stesso una minaccia alla sua incolumità. Questo tipo di opposizione sempre più allargata, è parte del cosiddetto ‘sionismo di sinistra’, non è neanche paragonabile a quelle associazioni israeliane che vedono principalmente Israele come forza occupante e ne delegittimizzano in qualche modo la sovranità.
Inoltre adesso è la gente comune, non politicizzata e di religione ebraica, orgogliosa d’essere israeliana, a prender posizione.
Emblematica la storia di Ram Cohen, preside di un liceo artistico di Tel Aviv, che ha rischiato di venir licenziato per il solo fatto d'aver parlato ai suoi ragazzi della realtà dell'occupazione militare nei Territori Palestinesi.


<<Non sono contro il mio Paese, non sono un sovversivo. Questo ho cercato di far capire alla Knesset. Io voglio stare e lavorare in Israele>>, si era difeso Cohen.
In ogni modo i dati oggettivi, dicono diversi osservatori internazionali, sono preoccupanti: il 2011 si è aperto con una carrellata di leggi antidemocratiche. La prima (Nakba bill) sanziona le organizzazioni o i gruppi che negano il carattere 'ebraico e democratico' dello stato d'Israele ed impedisce agli arabi israeliani di commemorare come vogliono pubblicamente il giorno della Nakba (quello che per i palestinesi è la 'catastrofe' e per gli ebrei israeliani il giorno della liberazione). La seconda legge consente alle comunità composte da meno di 400 famiglie di nominare delle 'commissioni per l'ammissibilità'. Si tratta di una giuria che si esprimerà con un sì o con un no sull'eventuale ingresso di nuovi abitanti nei piccoli villaggi del Negev e della Galilea.

La terza prevede la punizione dei cittadini o dei gruppi israeliani che facciano ricorso al boicottaggio economico, culturale o accademico dello Stato ebraico. La campagna di boicottaggio internazionale (BDS), sostenuta da una parte minoritaria della società civile israeliana, stava infatti funzionando, secondo il giornalista Uri Avnery. Perché lì dove non arriva il diritto internazionale arrivano gli attivisti, i giornalisti, gli artisti, gli studenti. Il provvedimento in discussione attacca questo potere, dice l’opposizione. Non impedisce soltanto il boicottaggio dei prodotti agricoli delle colonie, (avviato dall’organizzazione Gush Shalom 13 anni fa) ma anche quello culturale E infine: è di un mese fa la decisione della Corte Suprema di negare la cittadinanza e la residenza a quei palestinesi sotto occupazione sposati con arabi israeliani. <<Una decisione che viola tutte le norme del ricongiungimento familiare>>, scrive l’agenzia sul Medio Oriente Nena-news.
 (Di Ilaria De Bonis, da Popoli e Missione di luglio-agosto 2012)