giovedì 8 gennaio 2015

Svolta laica in Tunisia?

Dopo l'elezione del nuovo presidente - il laico Essebsi - la Tunisia procede verso la formazione di un governo che dovrà rappresentare non solo il vincitore laico, Nidaa Tunes, ma anche le altre formazioni. Non ultima quella islamica moderata, Ennahda. 

Per governare il Paese dei gelsomini, alla sua prima prova presidenziale dopo la fine del regime di Ben Ali, Nidaa Tunes (86 seggi su 217 contro i 69 di Ennahda) dovrà far i conti con gli altri attori politici. 

Sarà un’ennesima prova di dialogo e democrazia o un compromesso che offusca il progresso? 

<<La cultura del compromesso è essenziale per sviluppare una democrazia interna>>, dice il tunisino Slaheddine Jourchi, attivista e uomo politico. La capacità di dialogare fa progredire le rivoluzioni. Gli studiosi di mondo islamico che abbiamo interpellato invitano a riconsiderare le facili letture che attribuiscono al cosiddetto laicismo la sola via di fuga.
Se è vero, dicono, che quest’islam politico moderato non deve allarmare i tanti islamofobici europei, è pur vero che il presunto laicismo di Nidaa Tunes (letteralmente “Appello per la Tunisia”) non dovrebbe alimentare false illusioni di modernità. Perché? Il tallone d’Achille di Nidaa sta nell’aver riesumato in gran parte i rappresentanti dell’ancien régime. Inoltre per motivi culturali il suo approccio non può essere laico alla maniera europea. Chiara Sebastiani, docente di Teoria della sfera pubblica e politiche sociali all’Università di Bologna, autrice tra gli altri del bel volume “Una città, una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico”, ci spiga che <<dopo le elezioni moltissimi giornali hanno titolato “svolta laica” ma in Tunisia nessun partito, che appartenga all’islam politico o che sia ad esso avverso, si definirebbe tale. Men che mai i vincitori di queste elezioni>>. L’equivoco è dunque quello di considerarla una partita secca tra laici e islamici.  
 <<Il punto non è islam sì o no - ribadisce Pietro Longo, direttore del programma di ricerca “Nord Africa e Vicino Oriente” dell’Istituto di Alti Studi in geopolitica e scienze ausiliarie - quanto piuttosto lo spazio che questo occuperà nella sfera pubblica e in quella privata>>.

Democrazia e islam moderato
Chi sono allora i presunti detentori della laicità e come tutelare la rivoluzione?
<<Nidaa è anti-islamista, il suo programma si contrappone a quello di Ennahda, che invece si ispira dichiaratamente al Corano – argomenta con noi Chiara Sebastiani - E’ un partito le cui caratteristiche sono il nazionalismo e una forte presenza dello Stato in economia e nella società, compresa la sfera religiosa>>. Inoltre è in linea di continuità non solo con l’entourage dell’ex dittatore Ben Ali ma col precedente di Bourghiba. E’ una classe politica, questa, vicina al post-colonialismo francese, un mondo oramai in via d’estinzione e tuttavia, afferma la docente, <<di grande levatura>>. <<Una lettura in chiave di inconciliabilità tra un Islam politico integralista religioso, e una modernità laicista non regge affatto>>, sostiene la docente. Semplicemente perché è troppo polarizzata: sono categorie che servono a definire un’altra narrazione del mondo. <<I media francesi più di tutti hanno agitato il pericolo islamista e la violenza dei salafiti - spiega la Sebastiani – Ma sappiamo che il rischio futuro, se c’è, non è legato né ad un ritorno al passato (a quel regime prerivoluzionario, ndr) né ad una violenza integralista di tipo religioso>>. Quanto piuttosto ad una destabilizzazione da parte di forze estranee alla democrazia. <<I pericoli possono arrivare da chi per un motivo o per l’altro non è molto felice che la Tunisia porti a termine una transizione democratica – dice - Queste forze possono celarsi sia all’interno del Paese che all’esterno>>. L’antidoto allora sta proprio in un compromesso politico che smorza gli eccessi e consente una mediazione.

<<Non posso sognare con mio nonno!>>
Ben più sentita è la questione del ritorno dei vecchi uomini politici, a partire da quello del candidato presidente di Nidaa, Beji Caid Essebsi. Al momento in cui scriviamo
il ballottaggio con l’uscente Marzouchi, sostenuto dagli islamisti, non c’è ancora stato, ma ricordiamo che Essebsi ha 87 anni. Era nel governo Bourghiba ed è tornato alla ribalta pochi mesi dopo le elezioni del gennaio 2011. Alle nuove generazioni cresciute in città - blogger rivoluzionari, geni dei social network, rapper e artisti - tutto ciò sa di antico. <<No al governo dei dinosauri!>>, scrivono sui muri. <<La Tunisia ha certamente perso molto dell'entusiasmo palpabile nei mesi successivi alla rivolta: oggi si respira un’aria di attesa e di disillusione>>, ci racconta Luce Lacquaniti, interprete traduttrice, laureata in Lingue e civiltà orientali che ha vissuto per quattro anni a Tunisi. Inoltre la svolta non è palpabile per chi sperava in un calo dell’inflazione o in un posto di lavoro. Ma la società civile è ancora desiderosa di esprimersi. La più grande conquista della rivoluzione è stata la libertà di parola. Indietro non si torna, lo spazio di libertà per fortuna è conquistato per sempre. Il giornalista e ricercatore Giuseppe Acconcia, corrispondete dal Cairo e autore del recente “Egitto, democrazia militare”, ci spiega alcune dinamiche: << la Tunisia ha saputo attendere, con i suoi tempi lunghi. Prima ha varato la Costituzione poi ha indetto le elezioni e questo ha permesso una transizione più articolata. Ma ci sono anche delle ombre: i candidati presidenti sono molto anziani. I giovani dei movimenti tunisini dicono: “non posso sognare con mio nonno!”>>.

Riscoperta dell’identità religiosa
In questi anni di “liberazione” c’è stata una riscoperta dell’identità islamica, soprattutto nelle masse popolari, che hanno potuto riappropriarsi di uno spazio perduto. Habib Bourghiba, primo presidente della repubblica dal 1957 al 1987, si ispirava molto al concetto di laicità francese, con la religione però fuori dallo spazio pubblico. <<A quell’epoca l’islam davvero non era visibile>>, spiega ancora Chiara Sebastiani. La religione islamica era costretta a vivere suo malgrado nell’intimità. Una forzatura che a distanza di anni ha rotto gli argini, pur manifestandosi in forma assolutamente moderata. La riscoperta di certe pratiche, come l’osservanza del Ramadan o il velo per le donne, <<è stata in un certo senso una rinascita culturale. Sono fenomeni di riscoperta della coscienza collettiva – sostiene la Sebastiani - L’islam politico è solo una parte di questa re-islamizzazione che non va assolutamente attribuita alla vittoria di Ennahda di tre anni fa. Si è detto che lo spazio pubblico si era re-islamizzato, ma in realtà lo era già!>>. L’Europa ha ricominciato a vedere e ad osservare la Tunisia troppo tardi, a partire dalla rivoluzione, ma questi erano fenomeni già in corso. Il mondo arabo si muoveva e si trasformava, si liberava e si riappropriava della cultura perduta. La cosa migliore che possiamo fare è rimetterci in ascolto, astenendoci mediaticamente dai facili giudizi e dalle interpretazioni unilaterali.

lunedì 15 dicembre 2014

Minoranze perseguitate in Iraq

Ilaria De Bonis
<<Mi perdonerete ma non sono qui per fare un’omelia o per chiedervi aiuti economici. Sono qui per dirvi che i cristiani in Nord Iraq sono a rischio sterminio. Per favore quando parlate di Isis dite: “Stato islamico di Siria e di Iraq”, non usate le sigle>>. Perché sintetizzarne il nome in qualche modo ne ridimensionerebbe la gravità. Ignace Youssif III Younan, patriarca di Antiochia dei Siri e capo del Sinodo della Chiesa siro-cattolica, si esprime così.

Il patriarca, che abbiamo incontrato ad un convegno a Roma, ha posto una domanda precisa, per ora senza risposte: <<Come torneranno a casa i nostri cristiani della valle di Ninive? E se pure ritornassero e i terroristi fossero in qualche modo cacciati via da quella parte dell’Iraq, chi garantirebbe loro che non ci sarà in futuro un esodo ancora peggiore?>>. Di questa fuga che ancora tiene sotto shock intere famiglie, parla un sacerdote del villaggio iracheno di Kamerlash: <<Ho preso i registri della parrocchia e il crocifisso e sono scappato. Come me, il resto dei cristiani del villaggio s’è allontanato in auto, chi verso Erbil, chi in altre città del Paese dove avevano dei familiari che li potevano accogliere>>.
Dall’inizio di agosto 2014 ad oggi circa 130mila cristiani, spinti dalla potenza devastatrice dei terroristi dell’Isis, sono fuggiti da Mosul in Iraq e dalla Piana di Ninive - Qaraqosh, Kramles, Talkief, Bartalla - per raggiungere il Kurdistan iracheno e ora si trovano per la maggior parte ad Antawa e ad Erbil.
Silvio Tessari, capo dell’ufficio di Caritas italiana per il Medio Oriente e il Nord Africa, ci racconta cosa ha visto quando è arrivato ad Erbil con la delegazione della Cei guidata dal Segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, qualche mese fa.

Per prima cosa Tessari apre un bell’atlante geografico e si sofferma sui confini iracheni e sulla geografia della Piana di Ninive. Mette poi il dito su un puntino del Kurdistan iracheno che nella mappa è Erbil e ci racconta che <<all’apparenza conserva l’aspetto di una città modernissima in stile arabo. Ma all’interno si apre un girone dantesco. Questa modernità fa sì che i rifugiati non li si veda appena arrivati lì. Dove sono? Nei cortili delle chiese. Nei cortili delle scuole. Nei palazzi in costruzione o incompleti. E anche nei mall, i centri commerciali>>.


In uno di questi mall erano raccolte circa 250 famiglie inscatolate in container fatti apposta per accoglierle. <<In una promiscuità e vicinanza impressionante - racconta Tessari - come polli in gabbia. Ogni famiglia è ingabbiata e questo fa impressione. Ma ci sono anche problemi di sicurezza. Se ad esempio ci fosse un corto circuito o un incendio la gente rimarrebbe intrappolata>>.

Poi le chiese. Che all’esterno sembrano normali edifici ecclesiastici ma appena si entra i cortili sono pieni all’inverosimile di tende. E ogni tenda è vicinissima all’altra. <<Si prepara da mangiare per terra, come in un campeggio, ma a pochissimi centimetri di distanza>>. Nell’arcivescovato di Erbil il cortile dove sorgeva l’oratorio per i catechismo è oggi abitato da 25 famiglie. <<Cosa significa questo? Che ci sono file di materassi accatastati ovunque e bombole di gas a vista per cucinare. Pentole e giocattoli. Di notte si tirano fuori i materassi e si dorme tutti insieme. Una situazione alla lunga insostenibile: è come vivere dentro un tram affollato>>, dice ancora il funzionario Caritas.

Il clima è rigido, l’inverno si fa sentire anche ad Erbil: le agenzie Onu stanno fornendo le stufe per le migliaia di famiglie rifugiate, ma il problema spiega Tessari, è la sopravvivenza quotidiana e la durata di questo esodo. Quanto dovranno rimanere in questo stato di precarietà? E soprattutto, l’Isis potrà mai lasciare ciò che ha conquistato, le case che ha occupato, diretto com’è senza esitazioni verso Baghdad?
La Chiesa locale del Kurdistan si occupa attualmente di circa 12mila famiglie, ossia almeno 50-60mila persone. Per gli aiuti alimentari c’è Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite. E poi i cristiani sono accolti con grande generosità dai pochi cristiani che vivono lì e si stanno prodigando in tutti i modi. Molte famiglie irachene in Kurdistan ospitano i profughi. Non c’è nessun cristiano curdo ma alcuni evangelici curdi sì.
<<La città di Erbil in sé è molto bella, si vede che ha costruito buona parte della sua fortuna sul petrolio. Politicamente la zona del Kurdistan è tranquilla e non è stata attaccata>>. Perché? Chiediamo.
<<I miliziani dell’Isis non hanno mai attaccato Erbil perché è da suicidi andare ad aggredire il cuore del Kurdistan, sebbene Mosul sia vicinissima ad Erbil. E’ molto più semplice per loro dirigersi verso Sud fino a Baghdad, dove l’esercito iracheno non c’è, anziché rimanere nel Kurdistan che è sempre sulla difensiva e prosegue con le sue istanze di indipendenza>>, dice Tessari.
L’arcivescovo di Mossul, Emil Nona, ha riferito che la gente è stanca e dice: <<Ci hanno tolto la libertà di vivere nelle nostre terre, ci hanno lasciato solo la libertà di fuggire o di essere uccisi e quello che ci preoccupa è che non vediamo segni di liberazione in vista>>.
La domanda che tutti gli analisti si stanno ponendo in questi mesi è: chi finanzia direttamente l’Isis e come si può isolare economicamente questo gruppo armato?
Ci risponde un ricercatore del Carnegie Middle East Center, Yezid Sayigh, che abbiamo contattato al telefono: <<Sembrerebbe che l’Isis inizialmente abbia ricevuto fondi da privati finanziatori dei Paesi del Golfo, ma questo sostegno è ora diminuito o concluso>>, anche perché i governi dei ricchi Paesi arabi, come l’Arabia Saudita, sono costretti a controllare i flussi di denaro e a bloccare fondi in uscita. <<Più significativa è invece la vendita di petrolio, attraverso intermediari e altri network – dice - Anche questa fonte è stata pesantemente colpita ma l’Isis sta sviluppando un controllo amministrativo sulle persone e mettendo assieme un sistema di riscossione delle imposte, dunque non sarà facile togliergli risorse finanziarie>>, spiega Saygh>>. Ma chi commercia con l’Isis?
Clara Capelli, ricercatrice dell’Università di Pavia, spiega che <<il califfato è in una fase in cui ha bisogno di fare cassa e dunque di vendere quello che razzia e il petrolio di cui dispone. Gli acquirenti delle materie prime e del petrolio sono Turchia, Libano, Siria. Il contesto è regionale, il bacino economico cui attinge l’Isis è questo>>. E dunque questo bacino va tenuto sotto controllo il più possibile.
D’altra parte questi miliziani non sono approssimativi. <<L’Isis è guidato da professionisti che hanno esperienza nelle forze armate – dice ancora Saygh – e nei servizi dell’intelligence dunque la sua abilità nel far funzionare uno Stato è abbastanza buona>>.
L’Isis si è rivelato l’ala estremista di quelle milizie che si opponevano al regime siriano di Assad, sostanzialmente finanziate dall’Occidente.


 Intervista a monsignor Sleima
 L’Iraq, il petrolio e la strategia multipolare

I.D.B.
Incontriamo monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini, in uno dei suoi viaggi a Roma. Il prelato è anche autore del libro “Nella trappola irachena”. Ci parla di una crisi che ha origine nell’occupazione Usa del 2003. E spiega perché l’Iraq e il suo petrolio sono oggetto e vittima degli appetiti esterni.

La barbarie irachena ha fatto molte vittime: chi altro sta pagando il prezzo?
«I cristiani sono certamente i grandi perdenti in questo scenario di desolazione, ma aimè non sono i soli. Vittime dell’Isis sono in maniera tragica anche gli Yazidi, popolazione inerme e pacifica. I cristiani sono fuggiti, sfollati, spinti all’esilio in circostanze penosissime. Vivono sotto le tende, senza più casa. Però molti Yazidi sono stati barbaramente uccisi. I loro bambini sequestrati e le donne vendute nei mercati e rese schiave: questo è uno scandalo umano! Lo leggerei come “un genocidio femminile”».

Quali sono le cause profonde e radicate dell’attuale crisi irachena?
«Direi che dobbiamo risalire al 2003, alla caduta del regime sotto i colpi degli americani e dei loro alleati e alla gestione successiva. Dopo il 2003 in Iraq ci sono stati tre grandi protagonisti: sunniti, sciiti e curdi. Tutte le minoranze hanno praticamente subito gli eventi. Chiediamoci cosa ne è stato dell’Iraq dopo il 2003: un Paese che non era più sicuro della sua identità. Un territorio praticamente diviso e ognuno per sé. Lo Stato rifondato non ha ancora il controllo su tutto il Paese. La legge sulla gestione delle risorse naturali non ha ancora visto la luce, dunque è vero che l’occupazione dell’Isis ha aggravato tutti questi problemi».

Si riferisce anche a delle interferenze esterne al Paese?
«Certo: l’Iraq può essere “letto” attraverso tre livelli. I primi due sono endogeni, l’altro è esogeno, esterno. Ossia fa riferimento ad un interventismo regionale e internazionale. Infatti la sua posizione geografica e le sue immense risorse fanno gola alle potenze straniere. Le ricchezze (il petrolio e il gas ndr.) sono il cuore del problema».

Anche l’Isis non è solo un problema iracheno?
«Lo Stato islamico è uno strumento in mano a delle strategie internazionali: l’apparenza è religiosa ma la religione è diventata uno strumento, l’istanza di legittimazione della violenza. Tutto è degradato al livello di strumento nella guerra per il petrolio e il gas. Come sappiamo geo-economia e geo-strategia vanno insieme. E qui stiamo assistendo ad un neo-colonialismo feroce, violento ed insaziabile».

Come uscire da questo vespaio?
«Bisogna evitare le guerre! Anche se le fabbriche di armi perderanno qualcosa. La verità è che se ci fosse un accordo al Consiglio di Sicurezza, se ne uscirebbe subito. Se c’è intesa tra Usa, Russia e Cina nessuno può resistere. La chiave è un accordo al Consiglio di Sicurezza. Purtroppo, in assenza di consenso, basta un veto per vanificare tutto».

A suo avviso qual è la “forza” dell’Isis?
«La forza viene dai suoi mandatari e finanziatori. L’Isis ha usato bene la strategia: ha un metodo studiato a tavolino per fare paura. Ricorre all’uso del “colpisci e terrorizza”, shock and awe (tattica militare di “dominio rapido”,  usata dagli Usa nella guerra in Iraq ndr.)».

lunedì 27 ottobre 2014

Il tallone d'Achille dell'Isis

l “mostro” che genera incubi in Occidente non è invincibile. Ma per trovare il tallone d’Achille dell’Isis servono lucidità d’analisi e una strategia collettiva. Questa è la pista indicata da diversi esperti e ricercatori di think tank ed università, che da anni studiano le evoluzioni del fondamentalismo islamico in Medio Oriente. Vie di fuga “intelligenti” rispetto all’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

“L’Isis è diventato il paradigma di un mostro invincibile ma non è così. Un punto debole ce l’hanno tutte le formazioni terroristiche, compresa questa” spiega Clara Capelli, ricercatrice di economia dello sviluppo all’Università di Pavia e già docente di macroeconomia in Libano. 


“Sono molto vulnerabili perché dipendono da fonti di reddito esterne”, spiega. Non hanno produzioni loro se non il petrolio, che però sono costretti a rivendere sul mercato nero tramite intermediari. L’obiettivo del califfato nel breve periodo “è fare cassa” e il loro canale è il sommerso.

La chiave economica pare efficace in funzione anti-Isis perché è proprio la stessa leva su cui punta l’organizzazione terroristica nell’espansione territoriale in Iraq e in Siria. “Armare il nemico del tuo nemico non è una strategia che tiene”, secondo la Capelli. Sbarrare l’accesso alle risorse è invece una via da percorrere.

Difficile quantificare le entrate economiche dell’Isis ma è anche vero che “ci sono degli intermediari che fanno da tramite tra i miliziani e i loro acquirenti sul mercato nero” dice ancora Clara Capelli: “Il califfato è in una fase in cui ha bisogno di fare soldi e dunque di vendere quello che razzia e il petrolio di cui dispone. Gli acquirenti delle materie prime e del petrolio sono Turchia, Libano, Siria. Il contesto è regionale, il bacino economico cui attinge l’Isis è questo”. Va controllato il più possibile.

“Si possono tagliare drasticamente le principali risorse finanziarie controllando le raffinerie di petrolio e impedendo il contrabbando alle frontiere” aggiunge Mario Abou Zeid, analista del Carnegie Middle East Center, “ma è praticamente impossibile tagliare tutte le risorse finanziarie e disintegrarli economicamente”.

Come si possono monitorare allora questi canali? La risposta è più articolata e tira in ballo i privati, i clan, le famiglie e gli emiri che hanno interesse a finanziare l’Isis.

 Qui si ragiona con categorie claniche, ribadisce anche Lori Plotkin Boghardt, ricercatrice del Washington Institute: “I privati cittadini sauditi cercano di finanziare il più possibile l’Isis e altri gruppi in Siria ed Iraq”, ci spiega.


Privati e associazioni caritatevoli stanno inviando centinaia di milioni di dollari agli uomini di al-Baghdadi e molti di questi trasferimenti avvengono in contanti. “I sauditi inviano il cash che è molto più difficile da monitorare e da bloccare per il governo dell’Arabia Saudita” dice: “In ogni caso crediamo al governo di Riad quando assicura di star mettendo in carcere i cittadini che finanziano l’Isis”.

Non si tratta di un dato da poco perché ci dà la misura di come questa sia tutt’altro che una lotta tra Oriente e Occidente: “Questa è una guerra innanzitutto interna al mondo islamico, che la stragrande maggioranza dei musulmani del mondo ha interesse a combattere e a vincere”, scrive il sociologo Stefano Allievi.

Anche il fattore religioso e la retorica dell’Islam nel califfato non sono altro che uno strumento di propaganda. “L’Isis sa come spadroneggiare” spiega ancora Capelli: “Mercenari che nella vita, e non da poco tempo, fanno questo di professione. La professionalità militare di queste persone esula dalla loro ideologia”. E dalla religione. Molto ben organizzati, determinati, ma sostanzialmente mossi dalla logica della conquista più che da quella della jihad.

Lorenzo Declich ha scritto che un elemento chiave dell’Isis è la politica di potenza “che solo in seconda battuta trova un’ideologia di supporto”. L’Isis si combatte sul piano della modernità e della tecnologia, non su quello delle bombe, perché nonostante la violenza medievale, questa è una formazione moderna. E anche sul piano della cultura popolare: bisogna impedire che ottenga consensi e attecchisca sul territorio. Inoltre non si deve cadere nel trabocchetto religioso.

“Commette un grossolano errore chi sovrappone e quindi confonde i fondamentalisti con i conservatori e i tradizionalisti, opponendoli tutti assieme ai liberali” scrive lo studioso Allievi: “Si tratta di una illusione ottica, e in certo modo di un effetto di appiattimento: nella realtà non è affatto così”.

L’Occidente ha un’arma potentissima che è quella della logica opposta alla barbarie della violenza. “Se la comunità internazionale non intraprende una contro-strategia culturale, l’Isis, pure sconfitto militarmente, si rigenera sotto altre forme”, dice Abou Zeid.

L’eventuale costruzione di uno Stato islamico è un obiettivo di là da venire, ammesso che in futuro sia ancora prioritario. “L’Isis sta sviluppando strutture simil-statali nelle aree sotto il suo controllo” spiega Lori Plotkin Boghardt, “ma è molto improbabile che possa dominare tutta la Siria o tutto l’Iraq seppure dovesse conquistarli territorialmente, per vari motivi non ultima la popolazione locale che è sciita e che difficilmente vorrà farsi assoggettare”. (ilaria de bonis)

martedì 2 settembre 2014

M.O.: CIVILI SOTTO ATTACCO

<<La logica divina non è quella umana. Il tempo di Dio non corrisponde al nostro tempo cronologico. Di queste guerre, della carneficina di Gaza e del Medio Oriente in fiamme, noi uomini non possiamo vedere altro che l’incomprensibile effetto immediato: la morte della ragione>>. Per fortuna non quella di Dio. Perfino in un inferno sulla terra come quello della Striscia di Gaza, dove, a pochi giorni dal cessate il fuoco - si contano 2.100 palestinesi uccisi, oltre 11mila case distrutte, 64 soldati israeliani morti, cinque civili israeliani colpiti dai missili di Hamas, un reporter italiano morto sul campo.


A parlare è suor Lucia Corradin, elisabettina, al servizio nel Caritas Baby Hospital di Betlemme. Parla di «genocidio» dei palestinesi di Gaza e dice che la logica del rispetto della vita è stata deliberatamente sovvertita in Terra Santa. L’esercito israeliano l’8 luglio scorso - ufficialmente per annientare l’azione terroristica del gruppo islamico Hamas - ha iniziato a bombardare questa striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 12. Dove vive un milione e mezzo di persone prigioniere di angusti confini. Da Gaza infatti non si esce. Chiusa su tre lati dai valichi con l’Egitto e con Israele, dall’agosto 2005 (anno del “disimpegno” di Sharon), la Striscia è destinata alla mattanza. Negli ultimi nove anni la guerra è stata ciclica, spietata e puntuale. 

L’hanno chiamata ora Summer Rains - “Piogge estive” - nel 2006 (il primo attacco militare israeliano con truppe di terra), ora “Inverno caldo”, ora ”Piombo fuso” nel dicembre 2008. Stavolta è “Margine Protettivo”. Inevitabile? <<Il primo inganno è la pretesa che non ci siano alternative>>, scrive l’israeliano Gideon Levy.

Lotta per la sopravvivenza 
<<Pregate per noi perché la forza della preghiera arriva fin quaggiù - la voce che risponde al telefono quando componiamo il numero della missione di Gaza è serena - Confermiamo che stiamo tutti bene. Ci sentiamo delle privilegiate ad essere rimaste qui a Gaza. Il nostro coraggio viene dal Signore>>. E’ una delle quattro suore Missionarie della Carità che durante i bombardamenti erano nella Striscia. Non sono uscite per non abbandonare i 28 bambini invalidi a loro affidati. In sottofondo sentiamo colpi di mortaio. 
<<Eravamo riusciti a mantenere delle esistenze apparentemente normali fino allo scorso 7 luglio. Poi il delirio più totale>>: Sayd Al-Ray ha voce mite e sottile, spezzata dalla paura. E’ un ragazzo gazawi di 27 anni con moglie e due figli. Lavora come operatore umanitario a Gaza. <<Non sappiamo che tipo di armi Israele stia usando – dice - Sappiamo solo che squadre mediche ricevono corpi in pezzi mentre altri sono totalmente carbonizzati>>. Sayd racconta di una lotta quotidiana per la sopravvivenza dentro la paura costante che una bomba si abbatta sul tetto di casa. Figli che si stringono alle gonne delle mamme e mariti e mogli che cercano di non perdersi mai d’occhio per non rischiare di morire lontani l’uno dall’altra. <<Quella notte c’è stato un momento che ha separato la morte dalla vita – ricorda Sayd -: abbiamo sentito il fischio d’un razzo che arrivava e subito dopo una grande esplosione. Al mattino ho raccolto tutto quello che potevo e ho portato la mia famiglia in un posto più sicuro>>. Ma non ci sono posti sicuri a Gaza. Neanche gli ospedali e tanto meno le scuole delle Nazioni Unite. <<Mia figlia di cinque anni mi ha detto: “Papà quando andrò da Dio gli dirò cosa Israele ci ha fatto”. Questo mi ha completamente scioccato: lei stava cercando di accettare il destino>>, dice ancora Sayd. Cosimo, un chirurgo di Medici Senza Frontiere ha estratto un proiettile dalla vena cardiaca di una ragazza di 20 anni. <<Gli altri due pazienti che ho operato la notte scorsa avevano ferite toraciche causate dalle esplosioni>>, racconta. Molti dei feriti giunti all’ospedale al-Shifa di Gaza sono stati trasferiti dall’ospedale di al-Aqsa, già bombardato. <<La crisi di cui siamo testimoni a Gaza non è ebraica né musulmana. E’ una crisi umana>>, spiega l’arcivescovo Desmund Tutu. Ecco: un deficit di umanità. Una perdita dell’istinto di sopravvivenza.



Impotenza del diritto
Vittorio Arrigoni, cooperante e giornalista italiano ucciso nel 2011 a Gaza, usava concludere le sue corrispondenze con <<Stay Human>> (Restiamo umani, ndr). <<I figli di un Allah minore – scriveva – continuano ad espiare l’eredità di un odio tramandato di generazione in generazione per una colpa che non hanno commesso>>. Ma restare umani si può, di fronte a guerre che uccidono più bambini che soldati? Perché neanche le Nazioni Unite riescono ad attivare canali per impedire la mattanza dei civili, a Gaza come anche in Siria, e più di recente in Iraq? La violazione del diritto umanitario è reato? E se sì perché non è sanzionabile? Il diritto internazionale fa acqua da qualche parte. <<Perché i nostri governi non intervengono quando l’oggetto degli attacchi da parte dei militari israeliani diventano le ambulanze che cercano di portare soccorso ai feriti? – scrivono in un comunicato otto Ong italiane - Eppure la IV Convenzione di Ginevra (art. 20) è chiara: non garantire l'accesso e la protezione del personale ospedaliero adibito al soccorso e al trasporto dei feriti e dei malati civili è un crimine di guerra>>. Eppure ogni decisione che ha a che fare con la guerra e con la pace continua a passare attraverso le strettoie del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove i membri permanenti con diritto di veto, e dunque quelli che decidono, sono ancora le cinque nazioni vincitrici dalla Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Russia (la stessa Russia di Putin in guerra contro l’Ucraina), Cina, Regno Unito e Francia. <<Chiunque di noi può osservare, analizzando i principali casi degli ultimi decenni, dall’Iraq, all’Afghanistan, al Corno d’Africa, alla Palestina, ai Balcani, all’ex Unione Sovietica>> che ci sono delle costanti, si legge in una lettera aperta scritta da Link 2007. Anzitutto <<i conflitti militari causano sofferenze indicibili alle popolazioni civili e aggravano, piuttosto che risolvere, i problemi posti a loro giustificazione>>. L’esasperazione militare rende il mondo nella sua globalità più insicuro e instabile e alimenta, piuttosto che indebolire, la spirale rovinosa del terrorismo. E’ arrivato il momento di cambiare le regole. E di prevedere sanzioni certe e inderogabili.



C’è chi dice no
Nel caso specifico di Israele e Palestina, si tratta, inoltre, di un conflitto del tutto asimmetrico. Perché le forze armate israeliane non sono paragonabili alla guerriglia di Hamas. <<Il nocciolo della questione è semplice - spiegano i giornalisti Nicola Perugini e Neve Gordon -: nei conflitti asimmetrici del mondo contemporaneo, i deboli non hanno molte alternative. I palestinesi della Striscia non possono scappare perché i valichi di frontiera sono chiusi; perché anche le case dei vicini sono dei bersagli e perché chi è già un profugo non vuole diventarlo due volte. Quindi restano dove sono>>. L’indignazione di fronte alla palese violazione del diritto umanitario arriva anche da medici e scienziati, per definizione bipartisan: <<Siamo sconvolti per l'assalto militare su semplici civili a Gaza con il pretesto di punire i terroristi – scrivono in una lettera pubblicata dal mensile scientifico The Lancet - Questa è la terza aggressione militare su vasta scala a Gaza dal 2008. Ogni volta il bilancio delle vittime è costituito principalmente da persone innocenti, in particolare donne e bambini. Questa azione ferisce l'anima, la mente e la resilienza delle giovani generazioni>>. Ancora Amira Hass ad Israele: <<Se la vittoria si misura con la capacità di provocare un trauma devastante a 1,8 milioni di persone che aspettano solo la morte, allora la vittoria è vostra>>. Noam Chomsky ha scritto che <<lo scopo di tutti gli orrori cui stiamo assistendo è semplice: tornare alla “normalità”. Quando questa ondata di attacchi avrà avuto fine, Israele spera di riprendere la sua politica criminale nei territori occupati senza alcuna interferenza e con il sostegno che gli Stati Uniti gli hanno sempre garantito. Gli abitanti della Striscia di Gaza saranno invece liberi di tornare alla normalità della loro prigione (…)>>.

I morti di Siria e i califfi d’Iraq
<<Le forme moderne di guerra si combattono implacabilmente contro i civili. Poco più di un secolo fa la proporzione tra le vittime militari e civili era di otto a uno. Negli anni Novanta le cifre si sono capovolte. Diffondere la paura tra i civili è un elemento fondamentale delle guerre moderne>>, scrive Joan Smith per l’Independent. Una chiave di lettura, questa, per comprendere quanto accade anche nel resto del Medio Oriente in fiamme. Nelle perenni e striscianti guerre civili scatenatesi in Libia come in Iraq, e naturalmente in Siria, diversi analisti vedono l’effetto della destabilizzazione seguita alle guerre occidentali o filo-occidentali, che hanno alterato violentemente gli equilibri interni, deposto e ucciso tiranni. Imposto leggi. Senza comprendere la complessità della variegata realtà sul campo. A farne le spese sono naturalmente ancora una volta le inermi popolazioni locali. Secondo uno studio realizzato da ricercatori americani e iracheni, tra il 2003 e il 2011 avrebbero perso la vita 460.800 civili in Iraq, anche per via del collasso dell'infrastruttura sanitaria. Stesso desolante panorama in Siria, dove la popolazione muore vittima del conflitto che dura da tre anni tra l’esercito del tiranno Assad e le tante fazioni di ribelli che continuano a frazionarsi, alimentando rivalità endogene. Oltre duemila civili, di cui 500 bambini, sono stati uccisi dai bombardamenti governativi su Aleppo e su località della provincia tenute dai ribelli siriani, a partire dall'inizio di quest’anno, secondo quanto riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria.

Un Medio Oriente senza più cristiani?
L'allarme più scioccante e la minaccia più seria, al momento, è quella lanciata dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), composto da terroristi che vagheggiano di restaurare un califfato islamico nell’area (l’istituzione del califfato, lo ricordiamo, venne abolita nel 1924 dalla Repubblica turca). Questa inaspettata quanto implacabile “svolta” estremista dà conferma di quanto si è sempre temuto: che le conseguenze nefaste della guerra voluta da George Bush e dai suoi alleati il 20 marzo 2003, per destituire il tiranno Saddam Hussein, fossero alla lunga peggiori della causa che l’aveva scatenata. <<Il Paese fu rapidamente occupato ma la resistenza all'invasione, sotto forma di una guerriglia continua e indomabile, ha dimostrato che una schiacciante supremazia militare in campo aperto non è sufficiente per garantirsi il controllo di un territorio>>, si legge sul sito di Senza Soste. L’Isil, nato nell’ottobre 2006, persegue due obiettivi che lo distinguono da altri gruppi ribelli e da Al Qaeda: è confessionale (sunnita) ed è panislamista. Vuole eliminare tutti gli islamici sciiti e i cristiani dal territorio che pretende di controllare: gran parte dell’Iraq, da Mosul a Kirkuk a Tikrit, e la Siria sottratta al controllo di Assad. Un “arco” jihadista che pare un mutante in senso peggiorativo ed estremista dei gruppi islamici finora conosciuti, con ramificazioni afghane e siriane. Nelle settimane scorse questi jihadisti hanno costretto i pochi cristiani rimasti nella seconda città irachena a lasciare le loro abitazioni. «I cristiani sono a Mosul da secoli e quelle famiglie sono state improvvisamente strappate via dalla loro città, dalla loro casa, dalla loro vita. Siamo davvero preoccupati per il futuro dei cristiani in questo Paese», denuncia monsignor Saad Syroub, intervistato da Acs. Un analista canadese, Gwynne Dyer ha scritto che <<quando gli statunitensi e i loro alleati hanno invaso l’Iraq, 11 anni fa, a Mosul c’erano ancora 60mila cristiani. L’anno scorso ne erano rimasti 30mila e oggi, ad appena due mesi dall’avvento degli estremisti dello Stato islamico, sono spariti del tutto. La maggior parte di loro è fuggita in Kurdistan senz’altro bagaglio che i vestiti che avevano indosso. Non vogliono tornare indietro e se potranno lasceranno il Medio Oriente>>. E’ veramente questo il futuro che vogliamo? O non è forse arrivato il tempo di sedersi ad un tavolo e riscrivere le regole del gioco, come avvenne all’indomani della seconda Guerra mondiale, perché si possa proteggere prima i popoli e poi gli eserciti? (ilaria de bonis da Popoli e Missione di settembre-ottobre. Foto tratte da album di Meri Calvelli)

giovedì 10 luglio 2014

Incidenti d'auto, flagello dei poveri

Di Ilaria De Bonis 

Non meno di 31 persone sono morte e 160 sono rimaste gravemente ferite nel corso di ben 87 incidenti d’auto verificatisi nello Stato di Lagos da gennaio a marzo di quest’anno. A tenere il conto delle vittime delle quattro ruote in questo caso è il Federal Road Safety Corps, una sorta di polizia stradale che si occupa anche di incentivare la sicurezza dei veicoli. 
A colpire ancora di più l’attenzione è il bollettino dei morti pasquali: in Sudafrica il Road Traffic Management Corporation il 20 aprile scorso annunciava che 25 persone avevano perso la vita e 34 erano rimaste ferite nel solo weekend di Pasqua. L’ultimo di questi incidenti mortali ha visto tra le vittime un bambino di quattro anni. A livello globale, nel mondo, muoiono ogni giorno circa 3.500 persone, ossia 1,3 milioni l’anno. 
 Un numero che è rimasto purtroppo invariato dal 2011 al 2013. Il 22% delle vittime della strada sono pedoni, il 5% è rappresentato da ciclisti. E sono i più giovani a rimetterci la pelle: ogni ora nel mondo perdono la vita circa 40 persone sotto i 25 anni, falcidiati dalle gomme delle auto o travolti dai motori delle vetture. Ma la peggiore performance in assoluto, ancora una volta, è quella dei Paesi più poveri, Africa e India in testa: per motivi che vanno dalla scarsità di leggi in materia (o ad una loro mancata applicazione) ad una guida “spericolata” perché poco rispettosa degli altri; dall’uso di vetture usurate o accidentate alla mancanza di strade asfaltate e adeguati segnali stradali. Se l’India detiene il primato del più alto numero di incidenti stradali al mondo (sono 130mila morti l’anno), seguita dalla Cina, al continente africano sono riservati altri tristi record. 

L’Africa, dicono le statistiche raccolte nell’ultimo rapporto stilato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), pur possedendo solo il 2% dei veicoli presenti in tutto il globo, contribuisce per ben il 16% agli incidenti mortali. Un contributo decisamente poco edificante per una popolazione che già soffre mille altre calamità: sfortunatamente ogni 100mila persone – si legge nel Global Status Report on Road Safety 2013 - 24 sono africane, 21 appartengono alla regione del Medio Oriente e Nord Africa, 18 sono asiatiche e circa 19 latinoamericane. C’è poi un dato che fa riflettere e che rende ancora meno umano il flagello: coloro che hanno meno responsabilità proprio perché non guidano, i bambini, sono le vittime “privilegiate” dell’incuria. 
Costretti a percorrere a piedi le strade più pericolose per andare a scuola o lasciati da soli a districarsi nelle insidie del traffico urbano, nel 2004 circa 950mila bambini sono morti dopo essere stati travolti da un mezzo stradale. Desmond Tutu, arcivescovo emerito di Cape Town, aveva intuito con grande anticipo le proporzioni del dramma: <<Di tanto in tanto nella storia dell’umanità capitano epidemie killer che non vengono riconosciute in tempo – aveva scritto - e dunque si agisce contro di esse solo quando è già troppo tardi>>. La strada può essere uno di questi killer invisibili, paragonabile ad un’epidemia virale, diceva.

L’alleanza globale contro il flagello

La preoccupazione oggi è talmente forte che in vista della Terza Settimana mondiale indetta dalle Nazioni Unite per la Sicurezza stradale che si terrà nel 2015 in Brasile - e ad un anno esatto dalla pubblicazione dell’importante documento cui abbiamo fatto cenno - l’Assemblea generale dell’Onu ha appena varato una risoluzione che ribadisce l’importanza di un continuo monitoraggio e l’essenziale lavoro portato avanti da alcune piattaforme internazionali. La più completa è l’Alleanza globale delle ong per la sicurezza stradale che lavora al raggiungimento degli obiettivi del “decennio d’azione 2011-2020”. L’intento è dimezzare il numero delle vittime e di coloro che rimangono disabili a vita. Questa coalizione di sigle comprende al suo interno ong che si dedicano esclusivamente a migliorare il contesto ambientale, formativo e legislativo che alimenta il sistema di guida. Si legge nella risoluzione dell’Onu del 14 aprile scorso che <<gli Stati membri sono tenuti ad adottare una legislazione che tenga conto dei fattori di rischio, compresa la mancata attenzione verso i segnali stradali, il mancato uso dei caschi per i motociclisti, delle cinture di sicurezza e dei seggiolini per i bambini. Guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di droghe, velocità inappropriata e uso dei telefoni cellulari>>. 
Tra le ong che fanno parte dell’Alleanza globale in Kenya ne troviamo ben sette: tra le più attive la Pamoja Road safety initiative, che si occupa di fare formazione presso i più giovani. I volontari tengono corsi e training per i ragazzi delle scuole elementari e medie e momenti di incontro pubblico per parlare di sicurezza stradale e informare sui potenziali pericoli della guida priva di regole. C’è poi la ong Asirt Kenya che ha lo scopo di ridurre i decessi e anche le perdite economiche causate dagli incidenti stradali. Il ramo filantropico dell’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg è partner delle Nazioni Unite nella lotta agli incidenti stradali per salvare vite umane e ridurre l’impatto economico di questo flagello: la fondazione Bloomberg Philanthropy ha stanziato finora 125 milioni di dollari per il programma del Global Road Safety dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

Chiesa, poveri e sicurezza

La Chiesa e le parrocchie locali sono tra gli attori prioritari di questa Alleanza globale: la mancata sicurezza stradale è per lo più il killer dei poveri, dicono in molti. Perché sono le comunità più indigenti, destinate a vivere lungo strade statali o ai margini delle grandi periferie urbane, quelle più soggette alla precarietà di vita. Ed è da qui che si deve ripartire, spiegano i missionari. <<Noi ignoriamo che gli incidenti d’auto siano tanto pericolosi – scriveva l’arcivescovo Desmond Tutu - Quest’epidemia è invisibile nella sua ubiquità: solo quando ci fermiamo a considerare il bilancio quotidiano in ogni quartiere o in ogni città, in ogni Paese o in ogni regione, comprendiamo la vera tragedia. Tremila e 500 persone uccise ogni giorno, migliaia seriamente ferite. Duecento e 60mila bambini trucidati ogni anno e più di un milione in fin di vita senza che nessuno protesti>>. I poveri non hanno mezzi per difendersi, non hanno strumenti e spesso sono vittime sacrificali di un progresso tecnologico che avviene in fretta, senza passare attraverso l’informazione, l’educazione e l’abitudine al rispetto dell’integrità altrui. C’è però un luogo comune che va sfatato: l’idea che la morte per incidenti stradali sia un tributo necessario da pagare al progresso in aree del mondo che vedono aumentare il loro Pil, come l’America Latina.

<<Dobbiamo sfatare il mito che siccome la regione latinoamericana cresce, dal punto di vista economico e il numero dei veicoli è aumentato, allora anche le vittime devono necessariamente aumentare – spiega Veronica Raffo della Banca Mondiale -Questo non è vero. E’ possibile cambiare: l’Argentina e altri Paesi dimostrano che ciò è fattibile>>. Ad esempio partendo dalla creazione di leggi migliori. Tra le cause principali di incidenti d’auto c’è la totale assenza di leggi che impediscano di bere alcolici e poi mettersi alla guida. Solo nove Paesi africani su 44 hanno varato leggi nazionali sulle modalità di assunzione di alcolici e la compatibilità di questi limiti con la guida. Tra le altre cause di morte la totale assenza di caschi per i motociclisti e la disabitudine all’uso delle cinture di sicurezza per gli automobilisti e i loro passeggeri. L’auto diventa così un’arma potenziale, pronta ad uccidere: solo 59 Paesi a livello globale, ossia il 39% della popolazione mondiale (circa 2,67 miliardi di persone), hanno messo a punto un limite di velocità urbana di 50 chilometri orari. Il resto dei Paesi non contempla vincoli e non prevede perciò sanzioni.

L’angelo del Nilo e altre storie

<<Deana è mia figlia. Aveva 17 anni quando la sua vita è stata spezzata. L’incidente avvenne il 9 ottobre 2003 alle dieci e mezza di sera. Deana stava andando con delle amiche ad una festa di compleanno; stavano attraversando le banchine del Nilo a Maadi, al Cairo. Il traffico era caotico e non c’erano semafori né marciapiedi, solo una fila ininterrotta di automobili che andavano veloci, bus e camion. Non c’era modo di attraversare quella strada per un pedone>>. E così venne travolta da un autobus e il padre, che racconta la sua storia, ricorda che l’autista neanche rallentò. Il Cairo è sempre stata una delle città più pericolose per gli alti livelli di traffico cittadino: questa ragazzina di 17 anni ha perso la vita lasciando una famiglia straziata dal dolore. <<Mia figlia amava la vita e amava gli angeli. Nella sua stanza aveva sempre delle piccole immagini o figurine di angeli. Per noi lei è diventata l’angelo del Nilo>>, scrive ancora il padre. <<Mi sento in colpa perché credo che avrei dovuto passare più tempo con lei ma poi penso che anche 24 ore al giorno trascorse insieme non sarebbero bastate>>. David, il padre di Deana, non si è arreso del tutto e col tempo ha deciso di instituire un fondo in memoria della figlia: la Safe Road Society, dedicata a rendere più percorribili e più vivibili per i pedoni le strade egiziane, con l’idea di costruire anche un tunnel pedonale sotto il Maadi.

Un’altra storia raccontata nella pubblicazione “Volti dietro i numeri”, a cura dell’Oms, è quella di Jane, 42 anni, morta in Camerun, il 16 settembre 2002 mentre si recava con un’autista da Yaounde a Douala, dove viveva con il marito e cinque figli. Il marito racconta che la donna fu trasportata in un vicino ospedale pubblico nel bosco: l’ambulanza rifiutò di portarla in una struttura migliore, pensando che non avesse abbastanza denaro per pagarsi le spese. <<Jane arrivò in ospedale ancora cosciente, scongiurava che l’aiutassero perché perdeva molto sangue, ma i medici non la operarono subito, non c’era personale sufficiente. Morì cinque ore dopo il ricovero>>. Questo triste epilogo fa capire quanto possa essere importante un primo soccorso tempestivo e un’efficace sistema sanitario, che purtroppo in Africa è quasi inesistente. Il più piccolo dei figli di Jane, Justice, aveva appena 3 anni. Pius Niawe, il marito di Jane, per tener desto il ricordo della moglie ha creato un’organizzazione chiamata Justice and Jane. <<Voglio continuare ad essere d’aiuto alle persone – racconta Pius – perché lei è stata d’aiuto agli altri. Ho dedicato tutto me stesso alla promozione della sicurezza stradale. Ogni anno stampiamo 100mila volantini per dire alle persone di stare attente, usiamo slogan come: “Le strade sono una proprietà pubblica, dobbiamo condividerle”. Oppure: “Se vai di fretta guida piano” o ancora: “Bevi o guida, fai una scelta!”>>.

Carneficina invisibile

L’Oms non esita a paragonare gli incidenti stradali a virus incurabili come l’Aids. Quella degli incidenti è però una calamità che a differenza delle malattie letali, per le quali la scienza ancora non ha fatto il salto di qualità, può essere arginata grazie alla prevenzione, all’informazione, alla presa di coscienza della sua gravità. Il Paese più “fragile” nel continente africano è la Nigeria, dove la media è di 33,7 persone uccise sulle strade ogni anno su 100mila abitanti nella regione; seguono il Sudafrica con una media di 31,9 morti l’anno, la Guinea Bissau e il Ciad, con quasi 30 morti. Si consideri che la media regionale in Africa è di 23 morti ogni 100mila. L’Etiopia non rientra nella top dei cinque peggiori (conta circa 18 morti ogni 100mila abitanti) ma è diventato un caso quando nel 2011 il settimanale Newsweek pubblicò un lungo articolo dal titolo “Il killer ignorato” che metteva in evidenza storie e numeri da virus letale. <<La morte provocata dalla guida è come un’epidemia – scriveva Andrew Ehrenkranz - Come ogni malattia il suo avanzare potrebbe essere rallentato grazie ad iniziative mirate, maggiori fondi stanziati e migliore istruzione. Mentre i soldi per combattere Aids, malaria e tubercolosi hanno raggiunto un totale di 4,7 miliardi di dollari negli ultimi sette anni, solo 100 milioni di dollari sono stati devoluti per promuovere la sicurezza stradale>>. L’Etiopia contava allora 190 morti ogni 10mila veicoli. Questa almeno la fotografia tre anni fa. Dal 2011 ad oggi è stata fatta molta strada: se non altro a livello di cooperazione, risoluzioni delle Nazioni Unite e documenti globali per la riduzione degli incidenti stradali. La piaga della mancata road safety è considerata seria e virale (perché “infetta” pedoni, automobilisti, ciclisti e quanti accidentalmente si trovano invischiati nel traffico quotidiano di città super caotiche) dall’Oms, tanto quanto le malattie più gravi e conclamate.
Immergendoci ulteriormente nei dati a nostra disposizione, ricaviamo altri sconcertanti dettagli. Come quello, apparentemente scontato, del soccorso dopo gli incidenti stradali: in alcuni Paesi africani non ci sono ambulanze o non arrivano sul posto. In ben 22 di questi Paesi meno del 10% dei pazienti feriti gravemente beneficiano del soccorso in ambulanza: solo in nove dei 44 Paesi monitorati i pazienti riescono a raggiungere l’ospedale su una vettura del pronto soccorso.

America Latina al bivio

Susana Suarez era venezuelana, aveva 35 anni e faceva la dentista. Lei e un’amica sono state falcidiate in strada mentre tornavano dalla spiaggia vicino Tucaras: due delle 130mila vittime della strada in America Latina nel 2013, dove muoiono in media 19mila persone su 100mila abitanti. <<Non ero preparata alla sua morte – ammette la sorella Lilian Suarez – Stava tornando a casa in macchina e attraversava un ponte ma aveva una gomma sgonfia. Susana e la sua amica sono finite nelle acque del fiume Aroa in un punto in cui sono molto profonde>>. Erano vicine alla città di Tucaras nello Stato di Falcon in Venezuela. Ai 130mila morti ogni anno si vanno ad aggiungere anche sei milioni di feriti per incidenti stradali che nella gran parte dei casi rimangono disabili a vita. Anche qui un piccolo progresso è stato fatto: la buona notizia viene dalla creazione dell’Ibero-American Road Safety Observatory, sostenuto dalla Banca Mondiale. Si tratta di un istituto di ricerca ed analisi dei dati che serve a monitorare tutto il Sud America fornendo indicatori e politiche atte a migliorare la situazione. In America Latina la proiezione è di 30 morti ogni 100mila abitanti e l’impegno è quello di far scendere questo numero a 15 ogni 100mila abitanti entro il 2020. Argentina, Cile e Uruguay hanno raggiunto buoni risultati grazie a <<forti politiche e cambiamenti istituzionali che hanno migliorato le amministrazioni>>, spiega Veronica Raffo della Banca Mondiale. Inoltre lavorare alla sicurezza stradale significa anche lavorare per l’uguaglianza perché la mancanza di sicurezza colpisce i più vulnerabili. Sono cinque i pilastri che l’Oms elenca: infrastrutture e strade più solide; veicoli sicuri e guidatori nel pieno delle loro facoltà; formazione e campagne di sensibilizzazione e un’adeguata risposta ospedaliera nel momento immediatamente successivo all’incidente d’auto. L’alleanza globale di attori che vanno dalle ong alle scuole, dagli esperti agli economisti ai missionari, sta contribuendo al raggiungimento dei cinque obiettivi per un mondo più sicuro e quindi più umano.
(Da Popoli e Missione di maggio 2014)

martedì 24 giugno 2014

L'EX GENERALE, GLI ISLAMICI E LA CIA

Ilaria De Bonis
  (Popoli e Missione)
I nodi libici mai sciolti tornano al pettine del Paese senza pace. Milizie islamiche rivali, ex ribelli e militari venuti da lontano si contendono il vuoto politico lasciato aperto da un impotente governo centrale. E confermano che la Libia è ancora affogata nel pantano in cui la lasciarono tre anni fa la Nato e le potenze straniere (sparite molto celermente), sostenitrici dell’urgenza di una guerra contro Gheddafi.
La prova di forza per il momento è vinta dall’ex generale Khalifa Haftar - un tempo fedelissimo del rais e poi suo nemico giurato - che dipinge se stesso come un vessillo nazionalista deciso a combattere le milizie islamiche (principalmente Ansar al Sharia).


In attesa dei risultati elettorali del prossimo 25 giugno per il rinnovo del Parlamento libico proviamo a ricostruire i fatti.

Di Haftar tutti parlano come di un personaggio ambiguo e vicino alla Cia: "Elevato a rango di colonnello negli anni Ottanta - scrive Lettera 43 - guidò le truppe libiche nella sanguinosissima guerra contro il Ciad. (…) Poi Gheddafi decise di abbandonarlo, disconoscendolo. Ma a salvarlo furono gli Usa".

Il periodico Foreign Policy spiega come il generale Haftar – che prima di tornare in Libia nel 2011 da ribelle, viveva esiliato in Virginia - il 16 maggio scorso abbia guidato con determinazione le forze paramilitari da lui chiamate “Esercito Nazionale” in un attacco armato contro il governo di Bengasi, che ha ucciso 70 persone e ne ha ferite oltre cento. Una sorta di colpo di Stato, il suo, che ha avuto come conseguenza la deposizione del primo ministro e lo scioglimento del parlamento. 

Come sempre sono i media arabi a tenere banco sugli argomenti scottanti del Medio Oriente: l’emittente Al Jazeera ci aggiorna frequentemente, così come fa Al Arabya, sull’evoluzione libica, comprese le nuove elezioni per il rinnovo del parlamento. Lo schema adottato da Bengasi sembra ricalcare quello egiziano, dove, mesi fa in nome della sicurezza e della libertà, l’esercito ha sottratto il potere ai Fratelli Musulmani, reprimendo nel sangue la rivolta dei suoi sostenitori e adesso tramite i suoi rappresentanti, vince le elezioni. In Libia le cose sono un po’ diverse ma gli obiettivi si somigliano: gli estremisti islamici non sono al potere, ma minacciano di prenderselo e chi promette di combatterli vince. In questo caso un oscuro ex generale. A complicare il tutto c’è il dato di fatto che in Libia il panorama è ancora meno netto che negli altri Paesi arabi. Qui la “Primavera” è stata in realtà una guerra civile pilotata da forze esterne.

"L’insurrezione libica venne fin dall’inizio mostrata all’opinione pubblica come una semplice lotta tra il bene e il male – scrive l’Independent -: Gheddafi e il suo regime vennero demonizzati e i suoi oppositori trattati in modo naif, senza la benché minima dose di scetticismo". Inoltre la Libia, strutturata in gruppi clanici, ha sempre subito l’estrema frammentazione delle famiglie rivali, che la dittatura dei Gheddafi riusciva a malapena a tenere sotto controllo. Oggi la Libia è tornata quella che non aveva mai smesso di essere, con l’aggravante che la guerra civile del 2011 e l’interregno post-gheddafiano, mal gestito e debolissimo, hanno acuito le rivalità ed esacerbato le posizioni interne.

La fragilità del governo di transizione ha lasciato spazio ad un pulviscolo di aspiranti al potere, milizie armate, gruppi estremisti islamici ed ex militari. "Tre anni dopo Gheddafi, la Libia sta implodendo nel caos e nella violenza", scrive ancora Patrick Cockburn dell’Independent, in un lucido pezzo d’analisi in cui spiega tra l’altro per quale motivo, secondo lui, la Nato avrebbe sostenuto con grande enfasi la fine del rais. 

"Gheddafi era un dittatore spietato che inflisse al popolo il culto della sua puerile personalità (…). Ma le forze della Nato che lo deposero - e che in un certo senso diedero ordine di ucciderlo – non lo fecero perché era un governatore tirannico, ma piuttosto perché aveva portato avanti una politica nazionalista sostenuta da grandi quantità di denaro, che era entrata in conflitto con le politiche occidentali in Medio Oriente", scrive Cockburn.


Del parlamento e del governo libico successivo alla guerra civile parla anche l’agenzia di stampa Reuters: "Il parlamento della Libia è paralizzato dalle divisioni tra partiti islamici e rivali nazionalisti, lasciando molti libici frustrati dalla mancanza di progresso verso una vera transizione democratica".
La fragile democrazia è passata da una crisi all’altra in un Paese che a marzo scorso aveva già cambiato tre primi ministri e non aveva ancora una costituzione scritta.

"Le milizie sono l’eredità più problematica della guerra - scriveva il mensile Popoli - Già nei primi giorni del conflitto sono nati gruppi combattenti. Ognuno di essi si è costituito attorno ad un clan o ad una cittadina. Oggi i miliziani sarebbero 150mila, divisi in centinaia di gruppi. (…) Il governo di Tripoli non controlla il Paese. Le coste sono in mano alle milizie in combutta con i trafficanti di uomini". 
Una situazione al momento esplosiva, rispetto alla quale la comunità internazionale appare disarmata e impotente perché incapace di tener testa all’intreccio delle fazioni e all’eterogeneità dei protagonisti in campo. (tratto dall'Osservatorio Medio Oriente del mensile Popoli e Missione)

venerdì 28 marzo 2014

Tunisia: il Team W e la nuova Costituzione

 Un ricercatore indiano di 28 anni, Riddhi Dasgupta, è l’uomo che si nasconde dietro la “seconda” primavera tunisina. Quella che è seguita alla rivolta di avenue Bourguiba (dicembre-gennaio 2011) e che a distanza di due anni ha prodotto un risultato tra i più importanti per la Tunisia: la nuova Costituzione. Naturalmente il testo è frutto dell’Assemblea Costituente tunisina e di anni di stesure, dibattiti e confronti politici. E’ stato l’esito di un dibattito pubblico costante, spesso travagliato. Ma è anche grazie al contributo di esperti internazionali, come quelli  del Team W, che la Tunisia ha fatto storia.


 Nell’autunno del 2011, Riddhi, brillante studente di Diritto internazionale a Cambridge (aveva già intrapreso con successo la carriera accademica) decise di contattare l’Assemblea Costituente tunisina.
<<Io e George Bangham mettemmo assieme un gruppo di 35 esperti di diritti umani, legge ed economia – racconta Riddhi Dasgupta - composto da americani, bengalesi, britannici, tedeschi, indiani, spagnoli e naturalmente tunisini. La Tunisia doveva fare le proprie scelte, ma pensammo che dei consulenti internazionali avrebbero aiutato l’Assemblea a capire che cosa altrove aveva funzionato e cosa no>>. E così fu.

Nacque il Team W: alcuni veterani della Wilberforce Society di Cambridge che hanno contribuito alla riuscita della rivoluzione democratica tunisina. <<Nonostante lo scetticismo diffuso, il Team W si adoperò a partire dal 2011 per produrre uno dei documenti costituzionali più progressisti>>, spiega Dasgupta.
Se c’è un Paese tra quelli del Medio Oriente in rivolta, che è stato in grado, pur tra mille difficoltà e due omicidi “eccellenti” (il dirigente del partito progressista, il Fronte Popolare, Mohammed Brahmi è stato ucciso il 25 luglio dello scorso anno, mentre il 6 febbraio 2013 venne colpito a morte il leader dell’opposizione Chokri Belaid), di imprimere una svolta soddisfacente alla post-dittatura, questo Paese è proprio la Tunisia. Il quotidiano parigino Le nouvelle Observateur, parlando della nuova Costituzione, titola “Il miracolo tunisino”.


La legge base del nuovo Stato ha visto la luce il 26 gennaio 2014, con 200 voti a favore, 12 contrari e quattro astenuti. Molti esponenti della società civile tunisina hanno cercato di comunicare all’Occidente (spesso sordo) che dal loro punto di vista la rivoluzione era stata già vinta. La stessa impressione che emerge parlando con i missionari cattolici in Tunisia: le suore e i padri Bianchi, presenza minoritaria ma costante nel Paese, giudicano decisamente positivo l’epilogo della rivoluzione dei gelsomini.
Padre Jean Fontaine, ex direttore dell’Istituto arabo di Lettere, ha fatto sapere che <<il testo della Costituzione fa in modo che i tunisini non musulmani possano vivere in pace nel Paese>>, il che è fondamentale per i cristiani, considerato che si contano 11 milioni di musulmani, circa 1.400 ebrei tunisini e circa 20mila cristiani.
Monsignor Ilario Antoniazzi, Arcivescovo di Tunisi, spiega che <<nel 1964 le oltre 100 chiese che fino ad allora la comunità cattolica tunisina possedeva sono state per lo più espropriate dallo Stato>>. 

Sopravvivono oggi appena cinque chiese ed otto scuole cattoliche. Tutelare questa minoranza per legge è dunque un passaggio cruciale.
Altra storia è invece quella dell’endemica povertà: dal punto di vista della crescita del Pil e della produttività, il Paese è in una fase recessiva tra le peggiori, che genera ulteriore povertà. Chi ha combattuto più per il pane che per la libertà è rimasto profondamente deluso. Soprattutto all’estrema periferia della Tunisia, come a Gafsa, dove la crisi ha colpito pesantemente il settore minerario del fosfato.
L’azienda chimica di Stato, il Gruppo Chimico Tunisino, partecipa a progetti di cooperazione internazionale con partner come l’India e la Cina. Per ora però i dati macroeconomici parlano da sè: nel luglio 2013 il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 16,5%, mentre prima della rivoluzione si attestava attorno al 13%. Allo stesso tempo, l’inflazione è aumentata del 6,5%. Il turismo (che rappresenta circa il 7% del Pil tunisino) ha subito una pesante battuta d’arresto, dovuta ai timori di disordini e violenze.

Ma la libertà aiuta sulla strada della ripresa: il testo della nuova Costituzione dà infatti vita ad un regime semipresidenziale, ad un’affermazione puntuale dei diritti civili (si parla anche di abolizione della tortura) e ad una difesa della religione islamica (che è religione di Stato) ma non della legge coranica, la sharia, che non compare nel testo.
<<Lo Stato protegge la religione>> ma nel contempo, e questo è molto importante, <<garantisce libertà di fede, di coscienza e di pratica religiosa>>. Lo Stato inoltre <<proibisce le accuse di apostasia (takfir) e di incitamento all'odio e alla violenza>>. A detta di molti si tratta di un ottimo compromesso con gli islamisti.

<<Formalmente in Tunisia la Costituzione consente ai musulmani di convertirsi al cristianesimo – ha dichiarato anche monsignor Maroun Lahham, ex arcivescovo di Tunisi - E qui i ragazzi che hanno fatto la rivoluzione hanno stili di vita moderni, usano twitter, facebook, youtube. Bisogna vigilare ma non credo che si riuscirà mai a trasformare la Tunisia e l’Egitto nell’Iran o nell’Arabia Saudita>>.
Esattamente un anno fa passeggiando per la Medina di Tunisi e lungo avenue Bourgouiba, il luogo simbolo della rivoluzione, avemmo l’impressione di un Paese confuso, ancora sotto shock, ma sostanzialmente vivace, seppur diviso. Un Paese finalmente libero. In quell’occasione incontrammo una femminista, Chema Gargouri, direttrice della Enterprises Fèminines Durable: «L’Europa pretende che la Tunisia sia un modello perfetto, una sorta di “copia e incolla” dalle democrazie occidentali – spiegava - Se questo non succede nell’immediato gridano al pericolo islamico. Ma non si può cambiare in un solo giorno e neanche in un solo anno! E’ un processo lungo che stiamo affrontando».

Certo il testo della Costituzione contiene anche articoli migliorabili, a detta degli esperti.
La sociologa Amel Boubekeur spiega che <<ad una lettura minuziosa del documento si evidenziano falle ed ambiguità relativamente agli articoli 7 e 22>>. Nel primo dei quali si dice che <<la famiglia è la cellula essenziale della società e lo Stato deve assicurarle protezione>>, ma non è abbastanza chiaro in che modo questo debba avvenire.  
Un deputato di Ennahda intervistato dal quotidiano La Stampa qualche tempo fa aveva dichiarato: «È più facile abbattere le dittature che ricostruire. Noi abbiamo fatto le maggiori rinunce per arrivare al compromesso costituzionale, abbiamo accettato il sistema presidenziale anche se preferivamo quello parlamentare perché più adatto a una democrazia nascente. (…) Certo ci sono i fanatici, i salafiti, i terroristi ma li abbiamo denunciati e perseguiti: in uno Stato di diritto chi sbaglia, anche con le parole, deve pagare». E questo è l’auspicio di quella parte di mondo che tiene per i rivoluzionari (non più della prima ora), in grado di dimostrare maturità istituzionale e amore per la democrazia. (di Ilaria De Bonis- da Popoli e Missione di marzo 2014)