lunedì 15 dicembre 2014

Minoranze perseguitate in Iraq

Ilaria De Bonis
<<Mi perdonerete ma non sono qui per fare un’omelia o per chiedervi aiuti economici. Sono qui per dirvi che i cristiani in Nord Iraq sono a rischio sterminio. Per favore quando parlate di Isis dite: “Stato islamico di Siria e di Iraq”, non usate le sigle>>. Perché sintetizzarne il nome in qualche modo ne ridimensionerebbe la gravità. Ignace Youssif III Younan, patriarca di Antiochia dei Siri e capo del Sinodo della Chiesa siro-cattolica, si esprime così.

Il patriarca, che abbiamo incontrato ad un convegno a Roma, ha posto una domanda precisa, per ora senza risposte: <<Come torneranno a casa i nostri cristiani della valle di Ninive? E se pure ritornassero e i terroristi fossero in qualche modo cacciati via da quella parte dell’Iraq, chi garantirebbe loro che non ci sarà in futuro un esodo ancora peggiore?>>. Di questa fuga che ancora tiene sotto shock intere famiglie, parla un sacerdote del villaggio iracheno di Kamerlash: <<Ho preso i registri della parrocchia e il crocifisso e sono scappato. Come me, il resto dei cristiani del villaggio s’è allontanato in auto, chi verso Erbil, chi in altre città del Paese dove avevano dei familiari che li potevano accogliere>>.
Dall’inizio di agosto 2014 ad oggi circa 130mila cristiani, spinti dalla potenza devastatrice dei terroristi dell’Isis, sono fuggiti da Mosul in Iraq e dalla Piana di Ninive - Qaraqosh, Kramles, Talkief, Bartalla - per raggiungere il Kurdistan iracheno e ora si trovano per la maggior parte ad Antawa e ad Erbil.
Silvio Tessari, capo dell’ufficio di Caritas italiana per il Medio Oriente e il Nord Africa, ci racconta cosa ha visto quando è arrivato ad Erbil con la delegazione della Cei guidata dal Segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, qualche mese fa.

Per prima cosa Tessari apre un bell’atlante geografico e si sofferma sui confini iracheni e sulla geografia della Piana di Ninive. Mette poi il dito su un puntino del Kurdistan iracheno che nella mappa è Erbil e ci racconta che <<all’apparenza conserva l’aspetto di una città modernissima in stile arabo. Ma all’interno si apre un girone dantesco. Questa modernità fa sì che i rifugiati non li si veda appena arrivati lì. Dove sono? Nei cortili delle chiese. Nei cortili delle scuole. Nei palazzi in costruzione o incompleti. E anche nei mall, i centri commerciali>>.


In uno di questi mall erano raccolte circa 250 famiglie inscatolate in container fatti apposta per accoglierle. <<In una promiscuità e vicinanza impressionante - racconta Tessari - come polli in gabbia. Ogni famiglia è ingabbiata e questo fa impressione. Ma ci sono anche problemi di sicurezza. Se ad esempio ci fosse un corto circuito o un incendio la gente rimarrebbe intrappolata>>.

Poi le chiese. Che all’esterno sembrano normali edifici ecclesiastici ma appena si entra i cortili sono pieni all’inverosimile di tende. E ogni tenda è vicinissima all’altra. <<Si prepara da mangiare per terra, come in un campeggio, ma a pochissimi centimetri di distanza>>. Nell’arcivescovato di Erbil il cortile dove sorgeva l’oratorio per i catechismo è oggi abitato da 25 famiglie. <<Cosa significa questo? Che ci sono file di materassi accatastati ovunque e bombole di gas a vista per cucinare. Pentole e giocattoli. Di notte si tirano fuori i materassi e si dorme tutti insieme. Una situazione alla lunga insostenibile: è come vivere dentro un tram affollato>>, dice ancora il funzionario Caritas.

Il clima è rigido, l’inverno si fa sentire anche ad Erbil: le agenzie Onu stanno fornendo le stufe per le migliaia di famiglie rifugiate, ma il problema spiega Tessari, è la sopravvivenza quotidiana e la durata di questo esodo. Quanto dovranno rimanere in questo stato di precarietà? E soprattutto, l’Isis potrà mai lasciare ciò che ha conquistato, le case che ha occupato, diretto com’è senza esitazioni verso Baghdad?
La Chiesa locale del Kurdistan si occupa attualmente di circa 12mila famiglie, ossia almeno 50-60mila persone. Per gli aiuti alimentari c’è Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite. E poi i cristiani sono accolti con grande generosità dai pochi cristiani che vivono lì e si stanno prodigando in tutti i modi. Molte famiglie irachene in Kurdistan ospitano i profughi. Non c’è nessun cristiano curdo ma alcuni evangelici curdi sì.
<<La città di Erbil in sé è molto bella, si vede che ha costruito buona parte della sua fortuna sul petrolio. Politicamente la zona del Kurdistan è tranquilla e non è stata attaccata>>. Perché? Chiediamo.
<<I miliziani dell’Isis non hanno mai attaccato Erbil perché è da suicidi andare ad aggredire il cuore del Kurdistan, sebbene Mosul sia vicinissima ad Erbil. E’ molto più semplice per loro dirigersi verso Sud fino a Baghdad, dove l’esercito iracheno non c’è, anziché rimanere nel Kurdistan che è sempre sulla difensiva e prosegue con le sue istanze di indipendenza>>, dice Tessari.
L’arcivescovo di Mossul, Emil Nona, ha riferito che la gente è stanca e dice: <<Ci hanno tolto la libertà di vivere nelle nostre terre, ci hanno lasciato solo la libertà di fuggire o di essere uccisi e quello che ci preoccupa è che non vediamo segni di liberazione in vista>>.
La domanda che tutti gli analisti si stanno ponendo in questi mesi è: chi finanzia direttamente l’Isis e come si può isolare economicamente questo gruppo armato?
Ci risponde un ricercatore del Carnegie Middle East Center, Yezid Sayigh, che abbiamo contattato al telefono: <<Sembrerebbe che l’Isis inizialmente abbia ricevuto fondi da privati finanziatori dei Paesi del Golfo, ma questo sostegno è ora diminuito o concluso>>, anche perché i governi dei ricchi Paesi arabi, come l’Arabia Saudita, sono costretti a controllare i flussi di denaro e a bloccare fondi in uscita. <<Più significativa è invece la vendita di petrolio, attraverso intermediari e altri network – dice - Anche questa fonte è stata pesantemente colpita ma l’Isis sta sviluppando un controllo amministrativo sulle persone e mettendo assieme un sistema di riscossione delle imposte, dunque non sarà facile togliergli risorse finanziarie>>, spiega Saygh>>. Ma chi commercia con l’Isis?
Clara Capelli, ricercatrice dell’Università di Pavia, spiega che <<il califfato è in una fase in cui ha bisogno di fare cassa e dunque di vendere quello che razzia e il petrolio di cui dispone. Gli acquirenti delle materie prime e del petrolio sono Turchia, Libano, Siria. Il contesto è regionale, il bacino economico cui attinge l’Isis è questo>>. E dunque questo bacino va tenuto sotto controllo il più possibile.
D’altra parte questi miliziani non sono approssimativi. <<L’Isis è guidato da professionisti che hanno esperienza nelle forze armate – dice ancora Saygh – e nei servizi dell’intelligence dunque la sua abilità nel far funzionare uno Stato è abbastanza buona>>.
L’Isis si è rivelato l’ala estremista di quelle milizie che si opponevano al regime siriano di Assad, sostanzialmente finanziate dall’Occidente.


 Intervista a monsignor Sleima
 L’Iraq, il petrolio e la strategia multipolare

I.D.B.
Incontriamo monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad dei Latini, in uno dei suoi viaggi a Roma. Il prelato è anche autore del libro “Nella trappola irachena”. Ci parla di una crisi che ha origine nell’occupazione Usa del 2003. E spiega perché l’Iraq e il suo petrolio sono oggetto e vittima degli appetiti esterni.

La barbarie irachena ha fatto molte vittime: chi altro sta pagando il prezzo?
«I cristiani sono certamente i grandi perdenti in questo scenario di desolazione, ma aimè non sono i soli. Vittime dell’Isis sono in maniera tragica anche gli Yazidi, popolazione inerme e pacifica. I cristiani sono fuggiti, sfollati, spinti all’esilio in circostanze penosissime. Vivono sotto le tende, senza più casa. Però molti Yazidi sono stati barbaramente uccisi. I loro bambini sequestrati e le donne vendute nei mercati e rese schiave: questo è uno scandalo umano! Lo leggerei come “un genocidio femminile”».

Quali sono le cause profonde e radicate dell’attuale crisi irachena?
«Direi che dobbiamo risalire al 2003, alla caduta del regime sotto i colpi degli americani e dei loro alleati e alla gestione successiva. Dopo il 2003 in Iraq ci sono stati tre grandi protagonisti: sunniti, sciiti e curdi. Tutte le minoranze hanno praticamente subito gli eventi. Chiediamoci cosa ne è stato dell’Iraq dopo il 2003: un Paese che non era più sicuro della sua identità. Un territorio praticamente diviso e ognuno per sé. Lo Stato rifondato non ha ancora il controllo su tutto il Paese. La legge sulla gestione delle risorse naturali non ha ancora visto la luce, dunque è vero che l’occupazione dell’Isis ha aggravato tutti questi problemi».

Si riferisce anche a delle interferenze esterne al Paese?
«Certo: l’Iraq può essere “letto” attraverso tre livelli. I primi due sono endogeni, l’altro è esogeno, esterno. Ossia fa riferimento ad un interventismo regionale e internazionale. Infatti la sua posizione geografica e le sue immense risorse fanno gola alle potenze straniere. Le ricchezze (il petrolio e il gas ndr.) sono il cuore del problema».

Anche l’Isis non è solo un problema iracheno?
«Lo Stato islamico è uno strumento in mano a delle strategie internazionali: l’apparenza è religiosa ma la religione è diventata uno strumento, l’istanza di legittimazione della violenza. Tutto è degradato al livello di strumento nella guerra per il petrolio e il gas. Come sappiamo geo-economia e geo-strategia vanno insieme. E qui stiamo assistendo ad un neo-colonialismo feroce, violento ed insaziabile».

Come uscire da questo vespaio?
«Bisogna evitare le guerre! Anche se le fabbriche di armi perderanno qualcosa. La verità è che se ci fosse un accordo al Consiglio di Sicurezza, se ne uscirebbe subito. Se c’è intesa tra Usa, Russia e Cina nessuno può resistere. La chiave è un accordo al Consiglio di Sicurezza. Purtroppo, in assenza di consenso, basta un veto per vanificare tutto».

A suo avviso qual è la “forza” dell’Isis?
«La forza viene dai suoi mandatari e finanziatori. L’Isis ha usato bene la strategia: ha un metodo studiato a tavolino per fare paura. Ricorre all’uso del “colpisci e terrorizza”, shock and awe (tattica militare di “dominio rapido”,  usata dagli Usa nella guerra in Iraq ndr.)».